Erdoğan vince ancora, ma la sua è una vittoria fragile
Un “sì” è sempre un “sì”. Anche se i due principali partiti d’opposizione denunciano irregolarità e la campagna è stata incredibilmente influenzata dall’apparato statale e dai grandi mezzi d’informazione controllati dal governo, domenica sera il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha vinto la sua scommessa.
Poco più del 51 per cento degli elettori ha accettato il passaggio del paese da un regime parlamentare a un regime presidenziale, che conferirà a Erdoğan enormi poteri. Il “sultano”, come lo chiamano a Istanbul, diventa così l’unico padrone della Turchia, che governa dal 2002 grazie ai successi elettorali del suo partito, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp). Ma questa vittoria è estremamente fragile.
Lo è prima di tutto perché il 51 per cento, anche tenendo conto del fatto che Erdoğan si è impegnato in prima linea fino all’ultimo, è una maggioranza estremamente risicata. La vittoria del presidente turco è fragile, anche perché l’Akp e l’estrema destra che si era alleata al partito di governo avevano ottenuto complessivamente dieci punti in più alle ultime elezioni, dunque sembrano aver perso terreno.
Inoltre bisogna tenere conto che le tre città principali – Ankara, Istanbul e Smirne – hanno votato “no”. Istanbul, di cui Erdogan era stato sindaco, era considerata il suo feudo elettorale. Evidentemente le classi medie urbane – la Turchia utile, quella dei quadri e di chi prende le decisioni – hanno manifestato il loro dissenso confermando un’evoluzione che si percepisce già da anni.
Dove va la Turchia?
Dopo il voto continuiamo a non sapere dove sta andando la Turchia, nazione all’incrocio tra l’Europa, l’Asia e il Medio Oriente. Il paese sembra in piena crisi. Sotto il controllo di Erdoğan e dell’Akp, partito islamista diventato islamo-conservatore, liberale, democratico, conservatore e filoeuropeo, la Turchia aveva attraversato un lungo periodo di rapida crescita, che l’aveva trasformata in un paese stabile e in una tigre economica. Poi però l’Unione europea ha sbattuto la porta in faccia ad Ankara perché gli elettori europei non volevano un nuovo allargamento, soprattutto se a candidarsi per l’ingresso era un paese musulmano.
L’integrazione con l’Europa è diventata più lontana, è evidente che serviranno decenni per raggiungerla
Questa integrazione con l’Europa, l’orizzonte geopolitico della Turchia dalla seconda metà dell’ottocento, è diventata più lontana, e a questo punto è evidente che serviranno decenni per raggiungerla. Anche l’altro orizzonte a cui questo paese abitato da ottanta milioni di persone aveva brevemente creduto sembra ormai svanito, perché il “neo-ottomanesimo”, la ricostituzione dell’Impero ottomano sotto forma di influenza economica, è andato a sbattere contro il caos creato nel 2011 dalle rivoluzioni nel mondo arabo.
Per la Turchia non c’è più futuro a est né a ovest. Fatto ancora più grave, la nascita dei Kurdistan autonomi in Iraq e Siria ha risvegliato l’irredentismo dei curdi turchi, mentre l’economia del paese si sta chiaramente sgonfiando. Spaccata in due tra città e campagne, tra apertura europea e ripiegamento su se stessa, la Turchia non sa dove sta andando, e non sarà questa vittoria risicata del suo presidente a cambiare il corso della storia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)