La crisi al rallentatore della democrazia statunitense
Gli statunitensi non sono esattamente portati alle sfumature. Non dovrebbe sorprenderci, quindi, che le proteste di destra culminate nell’assalto all’edificio del Campidoglio di Washington, il 6 gennaio 2021, siano state immediatamente raccontate come un colpo di stato.
Per la maggior parte dei democratici, i partecipanti erano quantomeno degli insorti colpevoli di eversione, se non addirittura dei terroristi interni. Una copertura onnipresente, per giorni, in televisione, ed editoriali che parlavano apertamente di attacco alla “casa del popolo”, hanno confermato questa valutazione.
I repubblicani dell’establishment hanno riservato ai manifestanti il peggior insulto per loro immaginabile: “stranieri”. L’ex presidente George W. Bush li ha paragonati a cittadini di una “repubblica delle banane”, e il deputato repubblicano Mike Gallagher è stato d’accordo nel dire che “stiamo oggi assistendo a vere e proprie porcherie da repubblica delle banane nel Campidoglio degli Stati Uniti”. Marco Rubio, senatore della Florida, ha descritto gli eventi in un tweet come “anarchia antistatunitense da terzo mondo”.
Ma nonostante tutte le paure, i rivoltosi pro Trump del 6 gennaio non apparivano esattamente come dei fascisti duri e puri. Molti hanno vagato senza meta nel Campidoglio guardando le cose da lontano, facendosi dei selfie e tornando poi lentamente alle loro camere d’albergo quando hanno cominciato ad annoiarsi. Non abbiamo visto i combattimenti di strada che solitamente associamo all’ascesa dell’estrema destra in altri paesi del mondo.
Forse il segnale più chiaro del fatto che gli Stati Uniti non rischiavano di sprofondare nel fascismo è stata la risposta agli eventi del 6 gennaio da parte delle élite statunitensi. È un fatto acclarato che storicamente gli interessi economici si sono allineati sia con il fascismo – come accaduto negli anni trenta del novecento – sia con l’autoritarismo di destra, e l’autoritarismo più in generale nei momenti di crisi. Come ha scritto nel suo recente libro sui monopoli Tim Wu, professore di diritto alla Columbia University: “Il monopolista e il dittatore tendono ad avere interessi convergenti”.
Donald Trump, naturalmente, ha qualcosa in comune coi fascisti. Ha usato i mezzi di comunicazione di massa per attizzare risentimenti già diffusi, dirigendo la rabbia non contro i detentori del potere economico ma contro le minoranze e quanti vengono percepiti come un’élite culturale. Ha inoltre incoraggiato la violenza e le minacce contro i suoi nemici, culminate nella mobilitazione di un anno fa.
La lenta corrosione della democrazia dall’interno sta proteggendo i profitti delle élite meglio di quanto farebbero delle truppe d’assalto
Ma quel che non ha avuto è stato il sostegno dell’élite. Trump ha dato alle aziende quello che volevano quando era al potere: tagli alle tasse, deregolamentazione e controllo del potere dei lavoratori. Ma a differenza dell’Italia degli anni venti o della Germania degli anni trenta, i grandi interessi commerciali non si sono sentiti a tal punto minacciati dalle organizzazioni dei lavoratori e dalla sinistra da permettere al presidente di rovesciare le norme democratiche. È sembrato anzi che, il 6 gennaio, le élite abbiano visto nell’instabilità della Casa Bianca una minaccia più grave.
All’indomani dei disordini del Campidoglio, l’Associazione nazionale dei produttori, sostenitrice di Trump, ha chiesto che il presidente fosse messo in stato d’accusa. L’influentissima Business Roundtable, che rappresenta le più grandi aziende del paese, ha diffuso una condanna dell’azione quasi altrettanto potente. E gli ambienti del capitalismo finanziario, il principale alleato del fascismo nella sua versione iniziale, si sono espressi in termini simili.
Jamie Dimon, presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase, aveva dichiarato, lo stesso 6 gennaio 2021, che “i nostri dirigenti eletti hanno la responsabilità di esigere la fine delle violenze, accettare i risultati e, come ha fatto la nostra democrazia per secoli, sostenere un pacifico passaggio dei poteri”.
Niente di tutto questo dimostra che le élite statunitensi abbiano motivazioni intrinsecamente democratiche. Queste stanno, dopo tutto, contribuendo a finanziare gli sforzi di manipolazione dei distretti elettorali in tutto il paese, che annacquano la democrazia e piegano i risultati a loro favore. Stanno riversando milioni di dollari per sostenere le campagne elettorali di politici che indebolirebbero il diritto di voto. E stanno convogliando le loro risorse per opporsi a progetti di legge che darebbero alla classe operaia un maggiore potere economico.
Ma, nonostante tutti i loro sforzi antidemocratici, sono lungi dall’essere pronti ad abbandonare apertamente le norme democratiche e liberali. Perché arrischiarsi in una rivolta quando la loro lenta corrosione della democrazia dall’interno sta proteggendo i loro profitti meglio di quanto farebbero delle truppe d’assalto?
In altri termini la politica statunitense è effettivamente in crisi. Ma una crisi al rallentatore. Non è eclatante come l’assalto al Campidoglio o una presa del potere militare. Ma a lungo termine infligge alla democrazia lo stesso danno.
Questo ci porta alla questione della riforma istituzionale.
Un sistema difettoso
Negli Stati Uniti un partito non si limita a vincere un’elezione e poi a governare (da solo o in coalizione). Al contrario, dopo una vittoria elettorale deve spesso fare i conti con una serie di veti. A causa dell’ostruzionismo del senato, sono necessari sessanta voti (ottenuti in maniera non democratica tramite due senatori per ogni stato, compresi i meno popolati) per approvare la maggior parte delle leggi. Per la camera dei rappresentanti, la più democratica della legislatura, le elezioni hanno luogo ogni due anni. Un fatto che la rende spesso fuori sincrono rispetto alle elezioni per il senato, che si svolgono ogni sei anni, e quelle presidenziali, che si tengono ogni quattro.
Un sistema bipartitico con questo tipo di struttura non fa che garantire che un governo diviso sia la norma più che l’eccezione, per non parlare del ruolo del potente apparato giudiziario. Si tratta di un accordo politico creato dai fondatori del paese per placare le passioni della popolazione, e per far sì che fosse l’élite a governare e che i cambiamenti alla costituzione tramite emendamenti siano quasi impossibili da realizzare.
Contrariamente ai miti sulla stabilità degli Stati Uniti, la cosa non ha funzionato tanto bene. Nell’ottocento la struttura del governo statunitense, in particolare il suo trasferimento di potere agli stati federali, ha protetto la schiavitù e il potere dei proprietari delle piantagioni, il che ha portato direttamente a una sanguinosa guerra civile. Nel novecento le cose sono state più stabili, ma per questo è servita una quantità insolita di consenso tra le élite e di cooperazione tra partiti.
Ma quel consenso è diventato più difficile da mantenere dopo che l’esodo dei liberali del nord dal Partito repubblicano e l’uscita dei dixiecrat dal Partito democratico hanno creato un sistema più ideologicamente coerente. Abbiamo avuto, da una parte, un partito di centro- centrosinistra che incorporava alcuni interessi aziendali, oltre che il movimento operaio e una base sproporzionatamente minoritaria di lavoratori e, dall’altra, un partito di destra favorevole alle aziende con una solida base popolare tra i bianchi conservatori del sud. Il livello di polarizzazione che ne è derivato non era insolito per gli standard mondiali, ma il sistema politico statunitense era straordinariamente male equipaggiato per gestire tale polarizzazione.
In un sistema razionale le elezioni avrebbero delle conseguenze, il partito vincente sarebbe in grado di governare e, se la gente disapprovasse le sue azioni, altre elezioni lo escluderebbero dal potere e permetterebbero all’opposizione di governare. Nel sistema statunitense attuale le elezioni producono quasi sempre un governo diviso e l’opposizione può usare i molti poteri di veto del sistema per ostacolare i tentativi di governo del partito al potere.
Non c’è da meravigliarsi che così tanti statunitensi abbiano scarsa fiducia nella capacità della politica di cambiare le loro vite in meglio.
La minaccia repubblicana
La polarizzazione è avvenuta in entrambe le direzioni e, come sostiene Ezra Klein nel suo libro del 2020 Why we’re polarized (Perché siamo polarizzati), non dovremmo seguire gli argomenti di discussione standard, denunciandola come intrinsecamente cattiva. Il sistema politico antidemocratico degli Stati Uniti ha funzionato solo con i lavoratori e le minoranze imbavagliate del secolo scorso, e parte della tensione politica denunciata dagli osservatori proviene da persone oppresse che affermano i loro diritti e interessi in modo più rumoroso.
Tuttavia è chiaro che il partito repubblicano si è spostato verso destra a una velocità molto più veloce di quanto i democratici si siano spostati a sinistra. La sfiducia repubblicana nelle istituzioni statali – che si riflette nel loro scetticismo sia verso i risultati elettorali sia verso la sicurezza dei vaccini – si è fatta più intensa. Decine di milioni di elettori di Trump hanno giustificato l’assalto del 6 gennaio al Campidoglio, pensano che le elezioni del 2020 siano state rubate e temono che lo stesso accadrà nelle elezioni di metà mandato del 2022, nelle quali i repubblicani dovrebbero registrare grandi passi avanti.
Se il trumpismo è stato la controrivoluzione scatenata dagli otto anni di tiepido liberalismo del presidente Obama, che tipo di risposta genererebbe un governo di sinistra più sicuro di sé? Questa è una domanda che ogni progressista dovrebbe porsi, specialmente nel tentativo di spingere Joe Biden a diventare “il nuovo Franklin Delano Roosevelt”. Dopo tutto, possiamo aspettarci che le forze reazionarie diventino ancora più aggressive, se messe di fronte a un nemico di sinistra più assertivo.
Come è possibile ridurre le tensioni? Tanto per cominciare, i democratici devono concentrarsi meno sull’evocare incubi sul futuro (anche se alcune di queste paure sono giustificate) e più sull’offrire sogni in cui la gente possa credere.
Questo significa una comunicazione più chiara sui vantaggi materiali che la politica può offrire alla gente. Dovrebbero insistere soprattutto su questo programma, ed essere pronti a prendere provvedimenti per perseguire la riforma istituzionale – necessaria a portare avanti questo programma una volta al potere – con mosse come l’eliminazione del potere di ostruzionismo del senato e la riduzione del potere dei tribunali.
Il futuro della politica statunitense è fosco: è difficile non immaginare, come fa Zack Beauchamp di Vox, una continua instabilità, una mancanza di fiducia nelle elezioni, un congresso bloccato e la crescita di gruppi estremisti. Può darsi che quelli del 6 gennaio 2021 siano stati dei disordini e non un colpo di stato. Ma ci saranno molti altri disordini in futuro, se la sinistra non troverà un modo per risolvere le contraddizioni che affliggono la società statunitense. E se questo non accadrà, lo spettro della destra che rompe l’impasse attraverso misure autoritarie diventerà molto più presente.
Per ora, comunque, il problema non è che la democrazia statunitense stia per essere rovesciata. Bensì che gli Stati Uniti non sono, tanto per cominciare, una grande democrazia. Abbiamo bisogno di crearne una in cui la gente possa credere.
(Traduzione di Federico Ferrone)