Come governi e aziende usano la causa lgbt+ per il marketing
Non fraintendetemi, come sostenitore della democrazia liberale, dei diritti dei gay e soprattutto della Mannschaft, la nazionale tedesca, ho festeggiato sfrenatamente al pareggio realizzato da Leon Goretzka contro la nazionale ungherese, e anche davanti alla sua esultanza “one love”. Ma al contempo condivido parte delle perplessità espresse dal direttore della sezione internazionale di New Statesman, Jeremy Cliffe, per come i giocatori e i tifosi ungheresi siano stati ritenuti collettivamente responsabili per le politiche intolleranti introdotte dal regime autoritario del loro paese. Lo scontro “liberali contro Ungheria e Uefa” appare un po’ fuori luogo, a dirla tutta.
Naturalmente, come la maggior parte delle grandi organizzazioni sportive, l’Uefa è incredibilmente ipocrita nel suo approccio selettivo alla commistione tra calcio e politica. A parte che tutti gli sport sono politici (in quanto espressione di norme politiche e culturali), un torneo internazionale disputato da squadre che rappresentano entità come gli stati è per costituzione estremamente politico. Inoltre l’Uefa promuove la campagna Equal game per “combattere la discriminazione” su base di genere, razza e sessualità, un tema profondamente politico nel mondo polarizzato di oggi. Ed è vero che il leader autoritario ungherese Viktor Orbán ha esplicitamente inserito il calcio nella sua campagna nazionalista e populista, investendo grandi quantità di denaro pubblico in stadi di proprietà privata. Detto tutto questo, vorrei concentrarmi su un’ipocrisia meno evidente, sul fronte opposto.
Da oltre dieci anni Orbán prende d’assalto la democrazia in Ungheria, e ha incontrato un’opposizione pressoché inesistente quando ha minato e indebolito i diritti di migranti, donne e lavoratori. E allora perché soltanto ora – non solo a causa della nuova legge che criminalizza i contenuti lgbt+ nelle scuole ma, a quanto pare, soprattutto per la politicizzazione della vicenda all’interno di Euro 2020 – la maggior parte degli stati dell’Unione ha deciso che “è troppo”? I diritti degli omosessuali sono davvero così importanti per questi politici? O c’è qualcos’altro sotto?
Arcobaleno ma non troppo
Come hanno sottolineato (e criticato) molti attivisti, ormai da anni i “diritti dei gay” sono diventati uno strumento di marketing per le aziende, i politici e gli stati. Le compagnie fanno opera di “pink washing” utilizzando i colori arcobaleno nei loghi e nei prodotti nel tentativo di renderli più allettanti per i segmenti più giovani e liberali. È una manovra sensata, perché per molti prodotti, in diversi paesi, i benefici di questa presa di posizione sono potenzialmente enormi, e i costi relativamente bassi. Ma bassi sono anche i benefici reali per la causa dei diritti dei gay. Prendiamo per esempio la Bmw. La casa automobilistica ha indossato i colori arcobaleno nel logo prima della partita Germania-Ungheria, ma qualche anno fa ha anche investito oltre un miliardo di dollari in un nuovo stabilimento in Ungheria. Se davvero la Bmw volesse sostenere i diritti delle persone lgbt+ in Ungheria, potrebbe tranquillamente mantenere i colori del proprio logo e nel frattempo minacciare di staccare la spina all’impianto di Debrecen se Orbán non ritirerà la legge.
In politica il pink washing è l’uso dei “diritti dei gay” per attaccare un oppositore politico e rafforzare le proprie credenziali di modernità e tolleranza. Questo processo è diventato talmente prominente tra i gruppi dell’estrema destra del Nordeuropa da partorire un temine accademico, omonazionalismo. Alcuni gruppi di estrema destra europei utilizzano i diritti dei gay per attaccare l’islam e i musulmani, definendoli “arretrati” e “intolleranti”, rivendicando al contempo uno status di modernità e tolleranza per sé. Il governo israeliano segue questa strada da anni. Eppure sia l’estrema destra israeliana sia quella europea fingono di non vedere l’omofobia rampante all’interno delle loro società.
Quello che sta accadendo oggi in Europa mi sembra una sorta di omoliberalismo, ovvero l’uso dei “diritti dei gay” per attaccare esplicitamente l’Ungheria e presentarsi implicitamente come tolleranti. In altre parole, la faccenda riguarda molto i politici e i governi e molto meno l’Ungheria. Di sicuro non riguarda quasi per niente la comunità lgbt+ e i suoi diritti, in Ungheria o altrove. Per fare un esempio, oggi il primo ministro olandese Mark Rutte si presenta come paladino dei diritti dei gay, ma governa in coalizione con un partito omofobo “soft” (l’Unione cristiana) e ha contribuito alla normalizzazione di un partito omofobo “estremo” (il Partito politico riformato). Allo stesso modo, diversi paesi dell’Unione tra i 17 che hanno chiesto di combattere la “discriminazione anti lgbt+” non riconoscono legalmente i matrimoni gay (Cipro, Italia) o una qualche forma di unione civile (Lettonia), accettata persino in Ungheria.
Se vogliamo davvero difendere la comunità lgbt+ e i suoi diritti, dobbiamo smettere di accettare il pink washing e l’omoliberalismo, cominciando a giudicare le aziende e i politici per ciò che fanno e non per ciò che dicono. Ancora più importante è fare in modo che il pride e la bandiera arcobaleno tornino a essere simboli della celebrazione e della difesa delle nostre comunità lgbt+ (in patria e all’estero) anziché lasciare che siano utilizzati come una strategia per attaccare un avversario politico e nascondere nel frattempo i propri comportamenti tutt’altro che perfetti.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
In collaborazione con VoxEurop.