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Le inutili polemiche sul World press photo

Sembra diventata un’abitudine: da qualche anno la proclamazione dei vincitori del World press photo si lascia dietro una scia di polemiche. Se poi alcuni premi sono contestati, o altri ritirati, la polemica si inasprisce ulteriormente. E tutto ciò crea sconcerto, tanto più che si parla sempre del “più prestigioso dei premi di fotogiornalismo”, tradizionalmente attribuito da una giuria di autorevoli specialisti internazionali.

Mio cugino ha accettato di farsi ritrarre mentre faceva sesso con una ragazza nell’auto di lei. Per loro non era strano. Ci sono parcheggi noti per essere luoghi in cui le coppie hanno rapporti sessuali. E ci sono anche uomini e donne soli che guardano anonimamente attraverso i finestrini nebbiosi delle auto. “La vergogna è morta”, ha detto qualcuno a Charleroi.

Questa è una delle foto contestate. Troilo ha dichiarato di aver mandato al World press photo la didascalia integrale, ma che gli organizzatori del premio hanno tagliato la prima parte, in cui si dice che il cugino aveva accettato di farsi ritrarre. L’omissione, spiega Troilo, ha fatto sembrare che lui volesse nascondere com’era nata la foto.

Anche quest’anno la polemica sta infuriando e ha finito per assumere toni grotteschi. Riassumendo: il reportage del fotografo Giovanni Troilo sulla città di Charleroi, in Belgio, intitolato Il cuore nero dell’Europa ha ricevuto il primo premio nella categoria Contemporary issues, ma poi è stato squalificato a causa di una delle foto del reportage, in cui si vede un pittore che realizza un quadro con delle persone nude (cosa che dopo Yves Klein non ha più nulla di nuovo): questa foto non era stata scattata a Charleroi, come dichiarato nella didascalia, ma in una località alla periferia di Bruxelles. Questo argomento formale e ridicolo, che maschera male un disagio o più precisamente una serie di disagi, ha provocato molte discussioni, critiche e invettive di ogni genere.

Il dibattito è sempre utile, soprattutto se permette di chiarire un problema. Ma in questo caso, come in molti altri, la discussione è sterile e si ha l’impressione sempre più irritante di stratagemmi che si basano sulle ambiguità stesse del premio e dei suoi regolamenti, e non sul contenuto. Tra un fotografo che si difende goffamente per il suo “errore” e un direttore del festival di fotogiornalismo Visa pour l’image che afferma che non esporrà più i vincitori del World press photo, si sfiora il ridicolo.

In effetti tutto si basa su un’idea sbagliata del fotogiornalismo, considerato un modello di “verità”. A costo di ripeterci, dobbiamo ricordare che, se da un punto di vista deontologico per un giornalista è vietato mentire, la fotografia è incapace di qualunque verità oggettiva. È tutta una questione di scelta di inquadrature, di estetica, di costruzione di briciole di realtà scomposte, ricomposte e messe insieme.

Ci si può interrogare sul contenuto informativo di un reportage che invece di raccontare una città con una forte immigrazione e una grave disoccupazione provocata dallo smantellamento dell’industria pesante, sceglie di far vedere gente che fa sesso in macchina, che ci sono persone obese o che una coppia pratica il sadomaso. Ma non è questo l’aspetto più importante.

Il fotografo ha fatto una scelta estetica in rottura con i canoni – o gli stereotipi, i clichés – di un fotogiornalismo di cronaca e ha fatto ricorso alla messa in scena e a scelte di luci con chiari riferimenti al mondo cinematografico. È un suo diritto, a partire dal momento in cui lo dichiara o, ancora meglio, lo mostra in modo esplicito.

Nessuna immagine fotografica può pretendere di sostituirsi alla realtà o restituirla integralmente. La messa in scena, la posa, la serie documentaria e le sue ripetizioni sono tutte modalità perfettamente accettabili. Quasi tutte le icone di W. Eugene Smith, da Minamata al Villaggio spagnolo, sono immagini preparate e rese ancora più drammatiche dagli ingrandimenti. Tuttavia, rimangono dei momenti molto intensi della storia del fotogiornalismo, del photo essay, del racconto fotografico.

Ognuno di noi ha il diritto di amare o di non amare un’immagine o un’estetica. È una questione di gusto, come per gli spinaci, la carne rossa, il vino frizzante o la mimosa. Ma si ha la sgradevole impressione che molti animatori dell’attuale “dibattito” nascondano il fatto di non apprezzare queste fotografie dall’estetica molto contemporanea – è un loro diritto – in nome della difesa di un’altra estetica di cui sono nostalgici, senza però chiedersi se questa sia pertinente. Si tratta ancora una volta di vecchie tentazioni conservatrici di un giornalismo arrogante.

La questione di fondo rimane quella della pertinenza di queste immagini rispetto all’argomento trattato e il senso che prenderanno – o meno – se saranno pubblicate su un giornale. Per rientrare in una logica giornalistica le immagini avranno bisogno di essere pubblicate con didascalie precise e documentate. Ma è soprattutto il modo in cui queste immagini saranno presentate e messe in scena dai giornali che ne determinerà il senso, portandoci verso la comprensione di una situazione oppure spingendoci verso una visione su cui ognuno di noi può fantasticare.

Per esempio, sempre sulla città di Charleroi c’è il lavoro in formato panoramico di Jens Olof Lasthein (pubblicato come portfolio sul numero 1071 di Internazionale) che ci sembrava molto pertinente e coerente nelle sue scelte dal punto di vista sia formale sia del contenuto informativo. Partendo dal presupposto che qualunque scelta estetica è una scelta politica nel vero senso del termine, è utile confrontare i due lavori, per potersi fare un’opinione. Il confronto permette di constatare che qualunque approccio fotografico è un’estetizzazione della realtà e che la scelta dell’estetica è la prima presa di posizione dell’artista, del documentarista o del giornalista. È del tutto artificioso distinguere forma e contenuto, a meno che non si voglia nascondere cosa c’è in gioco.

Marchienne-au-Pont, Charleroi.
Marchienne-au-Pont, Charleroi.

Il lavoro di Troilo, che lo si apprezzi o meno, ha il merito della coerenza grafica interna e se dà fastidio per la scelta di aspetti della realtà che possono sembrare marginali rispetto alla situazione generale (sesso, arte, spazi vuoti e non contestualizzati), ha comunque il merito di essere fedele alla sua logica. Di conseguenza discutere se si tratta o meno di fotogiornalismo è inutile. Spetta a chi fa i giornali assumersi la responsabilità nei confronti della realtà e dei lettori. Sono loro che gli daranno o meno un senso nelle loro pagine. Per quanto riguarda chi pensa di poter dare delle lezioni agli altri, che continui pure ad adorare il dio della realtà che appartiene a un tempo ormai finito.

Il World press photo, che anno dopo anno perde di credibilità favorendo lo sviluppo di queste polemiche, farebbe meglio a chiarire la sua posizione. Rifiutare qualunque immagine preparata (si ridurrebbe drasticamente il numero di immagini da esaminare) o appena ritoccata (altra grande economia di tempo) significa dover assumere un esercito di esperti della manipolazione.

Ci sarebbe però una soluzione molto più semplice: creare una o più categorie per le fotografie di interpretazione del reale. Ma visto che le foto sono tutte più o meno interpretazioni, anche questa soluzione sembra difficile da mettere in pratica. Forse la cosa più semplice sarebbe quella di sopprimere i premi e di dare ai fotografi più coerenti i mezzi per produrre e per pubblicare, nel massimo rispetto dei diversi stili.

Ma questo è un sogno.

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