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La foto di Aylan Kurdi rischia di essere presto dimenticata

Johan Hufnagel, direttore di Libération, fornisce una “spiegazione” disarmante sul perché il quotidiano francese non ha pubblicato la foto di Aylan Kurdi, il bambino siriano trovato morto sulle spiagge della Turchia: “Non l’abbiamo vista”. La cecità di Libération, che per molto tempo è stato un punto di riferimento nell’uso della fotografia e che non può essere sospettato di aver sottovalutato la gravità della situazione dei profughi e dei flussi migratori, spiega forse come mai nessun giornale francese – a parte le Dernières Nouvelles d’Alsace e Le Monde (che l’ha inserita in ritardo) – ha pubblicato le fotografie che, dopo aver circolato sui social network, sono finite sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo?

Questa sgradevole sorpresa non deve però impedire di riflettere a mente fredda sul momento di emozione collettiva provocata dalle immagini. Dodici persone in fuga dalla Siria sono morte mentre la barca con la quale cercavano di arrivare in Grecia è affondata vicino all’isola di Kos. Sulla spiaggia sono stati ritrovati i corpi di Aylan Kurdi, 3 anni, e di suo fratello Galip, 5 anni, e della loro madre Rehan.

Negli ultimi mesi e durante tutta l’estate abbiamo purtroppo visto migliaia di fotografie di questi naufraghi dei tempi moderni. Spesso abbiamo dimenticato le foto molto simili che, solo qualche anno fa, erano state scattate sulle coste spagnole di fronte al Marocco. Perché allora l’immagine, le immagini, di Aylan hanno avuto un impatto diverso, perché l’emozione sembra improvvisamente aumentata?

Queste immagini hanno qualcosa di commovente per la loro distanza rispettosa e l’assenza di spettacolarizzazione

Si possono avanzare numerose spiegazioni, come per esempio il fatto che si tratti di un bambino, ma purtroppo non è il primo e molto probabilmente non sarà neanche l’ultimo. Il modo in cui sono state pubblicate le immagini fornisce forse qualche elemento in più per capire l’intensità di questa reazione emotiva.

Una reazione che si manifesta nel momento in cui sempre più europei si rendono conto che non si può più parlare di migranti – anche se le situazioni sono spesso simili, le condizioni non sono esattamente le stesse – e che è tempo di affrontare la questione politica dell’accoglienza dei profughi.

L’immagine più ripresa mostra in primo piano, in orizzontale, un bambino con i pantaloni corti e la maglietta rossa, la faccia contro la sabbia, il volto bagnato dalla risacca. Un uomo in uniforme di schiena gli si avvicina. In molte pubblicazioni in prima pagina è stato scelto uno scatto con solo il corpo del bambino. Non si può non pensare a come questa immagine rimandi alle radici della nostra cultura, ai racconti magici dell’oceano che porta a riva i sopravvissuti “provenienti dal ventre del mare” o che dà loro la vita. Ma in questo caso il mare ha restituito un corpo inanimato, come fa quotidianamente con i rifiuti di cui si sbarazza.

Un’immagine quindi violenta. L’immagine successiva, anch’essa molto pubblicata, mostra il militare che trasporta con delicatezza il cadavere del bambino. In questo caso proiettiamo la nostra percezione dell’orrore nella speranza che questa immagine si trasformi in metafora della compassione attiva di un’Europa che tergiversa da mesi – da anni – di fronte a una situazione insopportabile.

Attenzione, nessuna di queste foto che sono state rapidamente diffuse, pubblicate e condivise, è violenta. Al contrario, hanno qualcosa di commovente, sia per la loro distanza rispettosa sia per l’assenza totale di spettacolarizzazione che anima l’inquadratura. Quello che è violento, molto violento, intollerabile, è la situazione alla quale ci rimandano e sulla quale ci avvertono.

Questa osservazione ha anche lo scopo di evitare nuove polemiche sterili sull’opportunità o meno di pubblicare queste immagini. Certo che lo si doveva fare. In nome dell’informazione, in nome dell’indispensabile segnale di allarme e rispettando – come non è sempre stato fatto – il pudore della fotografa, Nilüfer Demir, che ha saputo mantenere una delicata distanza da quello che vedeva.

Di solito è impossibile – e ancora meno a caldo – determinare perché e come delle fotografie diventino delle icone, dei catalizzatori di gruppi che si proiettano e si riconoscono in esse. Questo è ancora più vero oggi, sommersi come siamo da sollecitazioni visive e dalle migliaia di immagini che cancellano quelle che le hanno precedute.

Se i politici, che si sono detti sconvolti dalle immagini che mostrano il cadavere del piccolo Aylan sulla spiaggia, prenderanno delle decisioni affinché questi fatti non si ripetano, allora queste fotografie diventeranno impossibili da fare e saranno servite a qualcosa.

Ma in questi tempi dalla velocità incontrollata, con le migliaia di immagini che sono arrivate dopo quelle drammatiche del bambino siriano, ho paura che queste fotografie saranno presto dimenticate. In modo vergognoso e inquietante. Ancora una volta questo probabile oblio ci deve far riflettere sulla nostra relazione con la memoria e quindi con la storia. Una riflessione terribile.

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