Trentadue punti più uno per la scuola dell’anno che verrà
Quando s’insediò al governo nel febbraio del 2013 Matteo Renzi volle da subito chiarire che la priorità per il suo esecutivo sarebbe stata la scuola. Ha continuato a ripeterlo in moltissime occasioni, facendo nel frattempo approvare una riforma in parlamento, la cosiddetta Buona scuola. Ma purtroppo è proprio sulle politiche dell’educazione che l’Italia sta vivendo la sua crisi più grande. Cos’è che non va? Cos’è che potrebbe andare meglio? Quali sono le urgenze e le ambizioni di una politica dell’educazione oggi in Italia?
Ho provato a mettere in fila una trentina di punti, usando molti studi e articoli di dibattito sulla scuola usciti nel 2015 e citando in maniera consistente e spesso quasi testuale due libri recenti: La scuola, le api e le formiche di Walter Tocci (Donzelli) e Senza educazione di Adolfo Scotto di Luzio (Il Mulino) (sull’ultimo numero del domenicale del Sole 24 Ore, c’è già un breve interessante intervento di Sergio Luzzatto su questi due testi).
Soldi
1) Molti supplenti non ricevono lo stipendio da settembre. La responsabilità se le rimpallano da qualche settimana il ministero della scuola – che assicura che a gennaio andrà tutto a regime – e il ministero delle finanze.
2) Nella legge di stabilità approvata pochi giorni fa sono stati stanziati trecento milioni di euro per i dipendenti della pubblica amministrazione (compresi i docenti), i quali hanno il contratto bloccato dal 2009: questo vuol dire un adeguamento di circa cinque euro mensili: una miseria, molto lontano dal tasso d’inflazione.
Gli insegnanti hanno davvero bisogno del governo per sapere come spendere i propri soldi?
3) Nella legge della Buona scuola è previsto un bonus economico per gli insegnanti migliori. Per decidere chi sono questi insegnanti migliori e perché lo sono, va istituito in ogni scuola un comitato di valutazione composto da preside, insegnanti, genitori, studenti. La formazione di questi comitati di valutazione si sta rivelando un mezzo disastro. Alcune scuole hanno deciso di boicottarla, in altre hanno deciso di spartire i soldi assegnati in parti eque a tutti, in altre hanno deciso di devolverlo al fondo della scuola.
4) A tutti i docenti qualche mese fa è stato anche corrisposto un bonus per consumi culturali di cinquecento euro. È la logica misera di sostituire i diritti (l’adeguamento degli stipendi più bassi d’Europa) con delle mance. Gli insegnanti hanno davvero bisogno del governo per sapere come spendere i propri soldi?
Valutazione
5) L’espansione della valutazione formale (i test invalsi, l’economicismo, l’ossessione per la misura della prestazione) oscura da anni la dimensione della valutazione informale. Si adottano modelli che privilegiano gli standard e penalizzano la creatività nella pedagogia, sottolinea Walter Tocci. L’eccentricità di un Célestin Freinet, di un Mario Lodi o di un don Lorenzo Milani – quel genere di visioni che sono state centrali per tutto lo sviluppo pedagogico del novecento – oggi non sarebbe riconosciuta.
6) Nel maggio scorso è uscito sul Guardian un appello molto importante, con un titolo esplicito, I test Ocse-Pisa danneggiano l’istruzione a livello mondiale?, firmato da un nutrito numero di ricercatori di tutto il mondo. La valutazione dall’essere una misura rischia di diventare il fine della politica scolastica. Quali sono le debolezze di un’istruzione dipendente dai test Ocse-Pisa: la standardizzazione, la progettazione a breve durata (i test Pisa hanno cicli di sperimentazione triennali), la sottovalutazione dello sviluppo fisico, morale, civile e artistico, la sopravvalutazione degli aspetti socioeconomici a scapito della formazione democratica, la finalizzazione dell’istruzione a politiche che non sono decise a livello pubblico (sono coinvolti anche soggetti privati nella realizzazione dei test).
Monitoraggio
7) Uno dei problemi della scuola non è che non si facciano riforme – solo negli ultimi dieci anni ce ne sono state una a ministro (Fioroni, Moratti, Gelmini, Giannini) – ma che non si vaglino i risultati. Sarebbe giusto sottoporre alle tecniche della policy analysis le riforme di questi anni.
Se non si investe sulla fragilità, si arriverà a dare a moltissimi cittadini una scuola sempre meno qualificante e inclusiva
8) Ogni governo ha imposto la propria politica della valutazione, senza contare le esperienze già compiute. Questo procedere a ondate successive ha creato un sistema eterogeneo, incompleto e contraddittorio. La Buona scuola avrebbe dovuto mettere ordine, verificare le sperimentazioni condotte dal ministero dell’istruzione in varie regioni, e invece è ripartita dall’anno zero facendo tabula rasa delle iniziative precedenti e creando un sistema ancora più confuso.
9) Nelle riforme non si considerano mai i costi organizzativi, ossia il tempo che viene sottratto alla didattica e all’attività amministrativa, per imparare a redigere la nuova burocrazia e partecipare a un nuovo cumulo di riunioni: quest’anno per esempio quante ore sono già state impiegate per la costituzione dei comitati di valutazione?
Questioni strutturali, squilibri
10) La Buona scuola si occupa di molte questioni ma non affronta quelli che sono i ritardi strutturali: la dispersione scolastica, la nuova didattica, la durata dell’apprendimento e l’educazione degli adulti.
11) Le scuole non sono aziende, ed è un grave errore creare una competizione tra gli insegnanti e tra gli istituti nell’accesso ai fondi pubblici. Le scuole che vanno bene avranno più fondi a discapito di quelle in difficoltà; queste ultime – se fossimo in un’economia di mercato – verrebbero sostituite da realtà più produttive; ma il sistema scolastico è un sistema chiuso, non concorrenziale. Questo vuol dire che se non si investe sulla fragilità, si arriverà a dare a moltissimi cittadini una scuola sempre meno qualificante e inclusiva, senza aver nemmeno di fatto premiato le eccellenze.
12) Occorrerebbe mettere al centro delle priorità politiche una questione meridionale sulla formazione. Il recente libro L’istruzione difficile (Donzelli) mostra che parlare di scuola a Milano e a Palermo vuol dire parlare di mondi diversi. Ci sono differenze profonde, non solo rispetto agli investimenti (soprattutto nell’edilizia, per esempio), ma anche rispetto alle scelte politiche. Il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno non è soltanto non compensato dalla scuola, ma viene in qualche modo alimentato dal ritardo nelle politiche educative a sud.
Una buona riforma avrebbe potuto impiegare gli insegnanti in un programma straordinario nel Mezzogiorno
13) C’è un problema di neoanalfabetismo che non può essere sottovalutato. In un articolo dell’11 maggio scorso Tullio De Mauro ricordava la commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) che produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Di questa commissione non c’è traccia nella Buona scuola, dei dati che ottenne non si è fatto nessun uso. Chi vuole farsene un’idea può almeno leggere il rapporto.
14) Invece dell’organico di potenziamento, una buona riforma avrebbe potuto impiegare gli insegnanti in un programma straordinario nel Mezzogiorno per aprire migliaia di asili, scuole dell’infanzia, classi a tempo pieno e nuovi istituti di istruzione e formazione professionale in accordo con le regioni; avviando un programma di formazione degli insegnanti – che non sarebbero dovuti emigrare al nord – mirato alla qualità della didattica nelle aree a rischio, e istituendo un’apposita sezione della costituenda Agenzia per i fondi europei con la missione di promuovere un innovativo profilo didattico delle nuove scuole. Questa sarebbe stata una vera riforma con una visione.
Mancano le idee
15) Invece di realizzare una forte autonomia scolastica si è semplicemente attuato un decentramento di funzioni. In questo modo non si responsabilizzano i poteri locali, e non c’è un alleggerimento di quelli nazionali. La macchina burocratica si raddoppia.
16) L’innovazione non consiste in una scuola 2.0, con tablet in classe e misurazione delle competenze ogni piè sospinto, ma nel rispondere alle nuove sfide cognitive, alla trasformazione dei processi di apprendimento.
Lavoro
17) Con la riforma della Buona scuola sono stati assunti circa centomila insegnanti. Molti di questi sono stati assunti come “organico di potenziamento”. Di fatto si è risposto alla necessità – anche per non essere multati dopo varie indicazioni europee – di immettere in ruolo molti docenti precari, senza però avere in mente nemmeno delle serie linee guida per la programmazione didattica, e scaricando sui singoli istituti la questione di come impegnare quest’organico di potenziamento. Il risultato è che nella maggioranza dei casi vengono utilizzati come supplenti per tutte le materie, comprese ovviamente quelle per cui non hanno né un’abilitazione né una preparazione adeguata.
Le retoriche usate da questo governo sono un misto di normativismo, economicismo, luoghi comuni non suffragati da dati
18) Invece di accumulare figure tuttofare nelle scuole, si dovrebbe pensare a una scuola ricca di operatori specializzati. Non bidelli, ma giardinieri, custodi, sorveglianti, manutentori. Non generici insegnanti di sostegno (che spesso sono docenti di altre discipline che hanno ripiegato provvisoriamente sul sostegno per lavorare, in attesa di essere chiamati sulla loro classe di concorso), ma specialisti per sordi, ciechi, autistici. Non insegnanti volontari e disponibili o in sovrannumero, ma bibliotecari, psicologi, infermieri, specialisti nell’orientamento, assistenti sociali, consulenti della valutazione, ortopedagogisti, logopedisti, specialisti in problemi di apprendimento.
19) Un esempio della mancanza di dibattito rispetto a questioni pedagogiche rilevanti e rispetto alla formazione di figure professionali adeguate può essere quello sulla disabilità. Questo genere di dibattito – come in generale tutta la discussione pubblica sull’educazione dei disabili – è stato praticamente nullo in questi mesi. Sulle disabilità dovrebbe essere emanato un decreto apposito, ma già sono in molti a preoccuparsi che i tagli di spesa saranno penalizzanti, che sperano di scongiurare il ritorno a scuole speciali, ma che soprattutto lamentano come sull’educazione dei disabili ci sia una grande mancanza di cultura politica.
Una riforma confusa
20) Le retoriche usate da questo governo sono un misto di normativismo, economicismo, luoghi comuni non suffragati da dati. L’esempio più evidente è stata la lezione alla lavagna dello stesso Matteo Renzi. Ma anche gli interventi della ministra Stefania Giannini o del sottosegretario Davide Faraone hanno evidenziato sempre una mancanza di visione culturale. Il tentativo di far precipitare questa massa confusa di propositi nel testo di legge ha prodotto un testo arruffato.
21) La legge 107, la Buona scuola, è un testo scritto male, ripete propositi del passato senza averli passati al vaglio della verifica, contiene norme eterogenee e frammentate, si perde nei particolari senza definire i concetti, assegna lo stesso peso a problemi grandi e piccoli. È la legge più prolissa di tutti i tempi, fa notare Walter Tocci. È lunga 25.134 parole, circa dieci volte di più della media di altri importanti provvedimenti che hanno segnato la storia della politica scolastica: legge Gui del 1962 sulla scuola media, 2.917 parole; legge n. 477 dei famosi “decreti delegati” che conteneva anche molte norme sul personale, 6.606 parole; legge Berlinguer sull’autonomia, 1.989 parole; legge Moratti, 4.626 parole; legge Gelmini, 1.418 parole.
22) Il governo si è tenuto nove deleghe nella formulazione della legge sulla Buona scuola. Queste possono produrre uno o più decreti legislativi. Per l’attuazione amministrativa la legge rinvia all’adozione di 19 decreti e regolamenti. Un’ulteriore delega amministrativa (comma 183) consente al ministero di riscrivere tutti i regolamenti vigenti ordinati per materie, senza porre un limite numerico. Poi ci saranno le risoluzioni della conferenza Stato-Regioni, i provvedimenti di spesa, le procedure concorsuali e le circolari ministeriali. Alla fine si potrà arrivare a circa mille pagine di norme di diversa fonte giuridica. Un po’ troppe.
La retorica della tecnologia può diventare, da inutile, dannosa
23) In un documento molto chiaro, Rosario Drago – preside ed esperto di autonomia scolastica – mostra tutti i punti deboli da un punto di vista legislativo e amministrativo della riforma: si dà più autonomia ai dirigenti scolastici, ma senza cambiare composizione e poteri del consiglio d’istituto; si esalta l’autonomia del curriculum, ma lasciando invariati e obbligatori i curricula e gli ordinamenti esistenti; si promuove l’alternanza scuola lavoro, ma solo in aggiunta alle 14 materie di studio esistenti o come “lavoretto” estivo extrascolastico; si inventano le nuove reti “obbligatorie”, ma senza decentralizzazione e organizzazione amministrativa delle reti stesse; si stabilizzano i precari, ma si lascia inalterato il sistema delle supplenze, dei punteggi e delle graduatorie; si inventano incarichi per funzioni ispettive, ma non si istituisce un servizio ispettivo autonomo; si premiano gli insegnanti, ma si lascia la vecchia carriera di anzianità; si afferma l’autonomia degli istituti scolastici, ma senza riforma dell’amministrazione centrale e periferica.
Tecnologia
24) La retorica della tecnologia può diventare, da inutile, dannosa. In una scuola in cui i fondamentali dell’istruzione non sono garantiti, l’introduzione delle tecnologie diventa un peso che porta via risorse per altre cose più importanti: la formazione degli insegnanti e il finanziamento per i laboratori scientifici, per esempio. In un libro del 2004, The flickering mind, Todd Oppenheimer già poneva la questione in termini di costi-efficacia, rilevando che i 70 miliardi di dollari spesi a partire dagli anni novanta fino all’inizio del nuovo millennio sarebbero potuti servire a reclutare 170mila insegnanti per la scuola pubblica. Che cosa ci fa optare tout-court per la tecnologia?
25) Tra il 2009 e il 2011 c’è stata un’importante sperimentazione nelle scuole italiane, chiamata Cl@assi 2.0. Ha coinvolto quasi settemila studenti delle scuole medie e ha ricevuto quattro milioni e 680mila euro. Doveva “registrare il cambiamento ambientale prodotto dalle nuove tecnologie nelle aule”. Nel 2014 è stato pubblicato il rapporto finale; ed è molto interessante perché i risultati sono vaghi e non si capisce se la sperimentazione è servita o meno a qualcosa. Ogni insegnante ha fatto per conto suo, e addirittura un ricercatore del progetto a un certo punto (pagina 18) chiosa in questo modo: “Nelle condizioni descritte fin qui è risultato difficile ricostruire un quadro completo di cosa sia effettivamente accaduto nelle classi coinvolte nel progetto”. Questo caso è paradigmatico delle sperimentazioni tecnologiche nella scuola italiana: cospicui investimenti per risultati scarsi e incerti, incapacità di verificare.
Il dibattito su una riforma scolastica dovrebbe coinvolgere non solo chi ci lavora, ma l’intera società
26) La tecnologia a scuola non riduce le disuguaglianze preesistenti, ma anzi può favorirle: gli insegnanti possono rivolgersi in modo diversi a quegli studenti agiati che a casa hanno familiarità con il computer e internet e quelli che non la hanno. Le tecnologie non solo sono spesso un privilegio dei migliori, ma il loro uso è condizionato da una struttura sociale classista.
Qual è il fine della scuola?
27) È fondamentale inquadrare storicamente ogni discorso educativo, capirne la dipendenza dagli orientamenti valoriali e culturali che prevalgono in una certa fase di sviluppo della società. La politica non dovrebbe entrare di meno nella scuola, ma di più. Il dibattito su una riforma scolastica dovrebbe coinvolgere non solo chi ci lavora, ma l’intera società.
28) Sul Corriere della sera compaiono regolarmente da qualche anno degli editoriali sulla scuola di Roger Abravanel. Il suo libro uscito quest’anno, La ricreazione è finita (Rizzoli) scritto con Luca D’Agnese, sintetizza bene le sue posizioni: il vero problema che affligge i giovani in cerca di occupazione non è tanto la crisi economica, quanto la carenza di soft skills ed “etica del lavoro”, che, ancor più delle competenze tecniche, sono il requisito imprescindibile per farsi strada nel mercato del lavoro. La scuola dovrebbe occuparsi di fornire tutto questo. Giuseppe DeNicolao ha dedicato alla discussione critica delle tesi di Abravanel molti articoli divertenti e puntuali, correggendo spesso i dati e smontando alcune tesi in modo molto convincente. Vale la pena di leggerli per intero, perché in questa critica si trova forse l’esemplificazione più chiara di due modelli opposti di educazione: una come allineamento al mondo del lavoro, funzionalista, neoweberiana; l’altra democratica, egualitaria, inclusiva.
29) Crescere non vuol dire prepararsi a una professione. Andare a scuola non significa essere pronti a entrare nella società degli adulti, ma anche saperlo cambiare, quel mondo.
Didattica
30) Si dice nel testo della Buona scuola che si creerà “un canale permanente di comunicazione con gli uffici competenti del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per valorizzare la condivisione di buone pratiche tra le istituzioni scolastiche medesime” e che intanto si realizzerà un servizio di assistenza ministeriale. Insomma anche nella riforma si parla tanto di esaltare le buone pratiche ma quello che è stato fatto negli ultimi anni – sia a livello istituzionale (per esempio il progetto Gold) sia a livello informale (per esempio La scuola che funziona) – non viene nemmeno preso in considerazione. Progetti di scambio formativo non monitorati, non valorizzati, finiscono per essere risorse non sfruttate e dimenticate; e generano siti chiusi, o non aggiornati – vedi quello ministeriale che dovrebbe essere la piattaforma delle buone pratiche e che è uno smilzo elenco di link semifunzionanti.
La promessa di Matteo Renzi a inizio mandato faceva quanto meno sperare. E per questo la delusione è stata più forte
31) Si fa tanto parlare di innovazione. Ma nelle politiche scolastiche c’è molto decisionismo. E questa riforma non fa eccezione. Quello che evidentemente manca è la capacità di implementare la riforma, e ciò è impossibile senza una formazione diversa della classe docenti. In un’indagine decennale dell’istituto Iard, i cui risultati sono raccolti in un saggio all’interno di Gli insegnanti italiani, si mostra come la maggior parte dei docenti italiani faccia lezione come si faceva venti se non cinquant’anni fa, replicando il modello degli insegnanti che loro stessi hanno avuto.
32) La confusione nella formazione degli insegnanti – tra concorsi, Ssis, Tfa e decine di percorsi speciali – oltre ad aver generato un ovvio caos nell’accesso al lavoro, non ha determinato un sostanziale miglioramento della qualità didattica. Soprattutto non si è creata una classe di formatori dei docenti. Molti di coloro che hanno insegnato alla Ssis e ai Tfa erano sprovvisti di una metodologia didattica specifica, e spesso non avevano nemmeno delle qualità personali per fare gli insegnanti. Erano professori o ricercatori universitari, prestati a queste improvvisate scuole di formazione. Questo non è più concepibile, occorrono dei percorsi veramente qualificanti e un rapporto più integrato tra formazione universitaria e formazione scolastica.
Infine
Discutere di formazione è una delle più interessanti attività politiche che si possa fare. Ma è davvero raro che i politici ci si impegnino sul serio. Per questo la promessa di Matteo Renzi a inizio mandato faceva quanto meno sperare. E per questo la delusione è stata più forte.
Molte delle cose che abbiamo provato a sostenere in questa piccola sintesi avrebbero bisogno di analisi approfondite, e di una contrapposizione franca, anche questa molto rara.
Un ottimo esempio da segnalare è il libro Abolire la scuola media? di Cesare Cornoldi e Giorgio Israel, pubblicato dal Mulino. In questo pamphlet a due voci, si contrappongono due visioni speculari di quello che occorrerebbe alla scuola italiana. Sono soprattutto le tesi di Giorgio Israel che andrebbero lette.
Quella di Israel – grande matematico e intellettuale, da poco scomparso a cui vorrei fare omaggio – è una posizione isolata ma che chiama a un serio confronto. Se la sua prospettiva coincide nella critica alla retorica delle competenze e della meritocrazia, la sua proposta è invece in contrasto per quanto riguarda la riformulazione della didattica in senso informale.
Il suo dito è puntato soprattutto contro gli eccessi di pedagogia e metodologie a scapito delle discipline, che già in sé contengono una capacità intrinseca di metadisciplinarietà. Sostiene Israel: non serve familiarizzare con il concetto di spazialità per imparare la geometria, anzi. E per questo critica l’esaltazione delle innovazioni didattiche di quell’eldorado scolastico che viene considerato la Finlandia e punta il dito contro il genericismo.
“È assolutamente sconcertante assistere allo spettacolo di persone che ammettono candidamente di non avere altro che una spolveratura di conoscenze matematiche, o addirittura di non averne affatto, che poi pontificano sui fondamenti dei concetti geometrici o si propongono come maestri della ‘discalculia’, e in generale, dei disturbi di apprendimento che, in fin dei conti, sono sempre correlati a tematiche disciplinari”.
Non sono d’accordo con molte delle cose che Israel scrive, ma gli va riconosciuto di essere tra i pochi che non è stato sedotto dalle false retoriche del progresso, che spesso si sono rivelate nocive, oltre che fasulle, facendo alle volte comporre a chi nella scuola ci lavora una sorta di elogio del ritardo.