Cos’è una gibigiana? Ogni tanto leggendo i romanzi mi capita di incontrare delle parole che non conosco: in L’arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg, per esempio, c’era questa parola, gibigiana, che, scoprii sul vocabolario, significa “balenio di luce riflesso da uno specchio, un vetro e simili”. Recentemente in un altro romanzo inedito ho trovato la parola abbambinare. Il vocabolario chiarisce: “spostare un oggetto pesante e voluminoso appoggiandolo alternativamente sugli spigoli”, un movimento dondolante come quello dei bambini piccoli.

Se siamo d’accordo con Ludwig Wittgenstein quando sostiene che i confini del nostro linguaggio sono i confini del nostro mondo, gli scrittori che si servono di parole desuete, che inventano neologismi, che ritrovano i dialetti, che usano idiomi settoriali nei loro libri, ci fanno da guide speleologiche, da esploratori artici verso i luoghi meno battuti del nostro mondo. A questi scrittori ogni generazione deve un’immensa gratitudine: da Carlo Emilio Gadda a Stefano D’Arrigo a Giovanni Testori ad Amelia Rosselli a Michele Mari, c’è anche una specie di tradizione di autori che hanno voluto navigare in mare aperto nell’oceano delle parole. Un’avanguardia militante del vocabolario.

Uno degli ultimi esponenti di questa tradizione è Tiziano Scarpa. Il suo romanzo uscito dieci giorni fa, Il brevetto del geco, bellissimo, è molte cose, forse anche più interessanti di questa, ma è sicuramente un inno alle parole. Di parole Scarpa scrive esplicitamente in molte pagine. A un certo punto alle parole stesse dà voce, come se fossero un personaggio dotato di una propria soggettività:

Noi parole restavamo lì sopra a pensare. Chiuse dentro i libri, siamo divenute antiche nel giro di pochi anni; in queste pagine siamo impossibilitate a scappare via da noi stesse con un link. Siamo un app che ha rinunciato a saltare fuori da sé; un giardino murato, come dicono i programmatori, senza collegamenti ipertestuali con l’esterno. Eppure abbiamo anche noi sogni e pensieri che ci trascendono: ci vengono continui rimandi a qualcos’altro, riferimenti che non appartengono al filo del discorso ma lo costeggiano in parallelo, come i cavi elettrici di un tram sopra una strada, o un tunnel fognario sotto il selciato. Noi siamo un testo senza link, e tutto quello che pensiamo fuori di noi stesse possiamo dirlo solo all’interno di noi stesse, con una nota, una divagazione, un cfr., un vedi, un →, un’allusione, una metafora, un’indicazione tipografica o puramente mentale.

Ma il suo non è soltanto un omaggio esplicito. Tutto il testo del Brevetto del geco ci sta a dire che la nostra conoscenza del mondo dipende dalla nostra conoscenza delle parole, che sono quadri, schemi, ponti verso la realtà.

Tra le sue pagine se ne trovano diverse di parole dimenticate a cui Scarpa riattribuisce un ruolo.

A pag. 57 per esempio c’è un critico d’arte che ha una notevole epa. Ossia un pancione. Poche pagine dopo c’è uno dei due protagonisti che vuole mangiare a sbafo in un vernissage e punta alla farcitura delle entragne – le interiora; mentre la performance è già cominciata e prevede pioggia di “acque cavernicole, e sgocciolii sotterranei in cavedi ipogei”. Dei cortili sotterranei. La curiosità che ha Scarpa per il mondo riproduce quella sorta di euforia adamitica di poter, se non dare il nome alle cose, almeno riscoprirlo. Anche per questa ragione porta l’altra protagonista a vagabondare nella campagna fuori Milano fino a farla imbattere in un tuffetto (una specie di piccola anatra), in alberi come il carpino e la farnia, in piante come la celidonia.

Quando, da lettori, si ha a che fare con questo genere di narrativa, si è portati a rubricarla come letteraria, se non anche iperletteraria, quasi accusandola di sghimbescio di essere leziosa, lettrista, elitaria, manierista. Se non idiosincratica, come per esempio poteva apparire il Dizionario affettivo della lingua italiana che nel 2008 curarono Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta, chiedendo a 200 scrittori italiani quale fosse la parola che avevano più a cuore (Scarpa nell’occasione rispose con la eteroclita coppia gemellare ghingheri e gangheri).

Invece no, si dovrebbe immaginare questa narrativa appassionata del lessico come la letteratura più politica: quella che più ha in animo di sovvertire il mondo, a partire dalla sua struttura molecolare.

Se non siete convinti di questo, potreste leggervi o rileggervi un libro che in questi giorni compie il suo ventennale e che per quei lettori che credono nella politica fatta attraverso le parole è stato un testo miliare: stiamo parlando di Infinite jest, il romanzo-galassia di David Foster Wallace, uscito negli Stati Uniti nel 1996.

Wallace aveva la fede di un monaco nel valore della lemmodiversità: e davvero sembra che la battaglia culturale più importante che ha combattuto attraverso i suoi testi, narrativi e saggistici, sia proprio questa: migliorare il mondo attraverso il potenziamento del nostro vocabolario.

Infinite jest è uno dei romanzi con il maggior numero di parole diverse che vi possa capitare di affrontare: c’è una tale commistione di linguaggi tecnici, di termini inventati, di parole inusuali, che leggendolo alle volte si ha l’impressione di restare avvolti in un universo all’ennesima potenza, di avere una vita moltiplicata.

E andando a spulciare gli appunti delle sue lezioni universitarie – conservate ad Austin in Texas, come per esempio fece Riccardo Staglianò in un articolo di un anno fa, si trova il suo invito

a rileggere, con un dizionario, da soli o davanti a un compagno fidato, per ‘evitare tragiche perdite di punti’. Ci sono pagine e pagine a interlinea singola piene soltanto del corrispettivo linguistico di fare le flessioni: dictionary building, il potenziamento del vocabolario. Si va da capezziera (la stoffa che protegge la parte della poltrona dove si appoggia la testa) a catamite (efebo), da epiclesi (il momento della messa in cui viene invocato lo Spirito santo) a orgone (l’energia cosmica primordiale, la libido degli umani). Un catalogo incrementale dell’esattezza, in nome della sua parossistica sensibilità linguistica (Sprachgefühl è il termine tedesco che mette in una lista del ‘97). Ecco, per dire che non era uno che predicava bene e razzolava male. Quello che pretendeva dagli allievi era solo una frazione di ciò che chiedeva a se stesso.

Ma non era soltanto una smania di perfezione e di padronanza della lingua che spingeva Wallace a essere un nerd del vocabolario. C’è un saggio che più di altri forse ci dà la chiave delle ragioni eminentemente politiche di quest’ossessione, ed è “Autorità e uso della lingua” contenuto in Considera l’aragosta e tradotto in modo miracoloso da Adelaide Cioni. È un saggio sulle visioni politiche che sottostanno alla stesura dei dizionari: il contrasto tra descrittivisti e prescrittivisti, coloro che sono più propensi a fotografare un mondo che cambia portandosi ovviamente con sé tutto il suo flusso di parole, e coloro che invece vorrebbero cercare di imporre alcune forme.

L’importanza che Wallace dà alla lingua e alla sua regolamentazione tramite i vocabolari parte da una concezione gramsciana, quella per cui è attraverso la lingua che si definiscono i rapporti sociali. Ma c’è anche di più: ed è una specie di ambizione segreta che condividono tutti gli scrittori che adorano il vocabolario e ne celebrano in un modo o nell’altro una liturgia. La possibilità borgesiana che tra le parole di un vocabolario si apra uno spazio per altre parole e altre ancora, e i limiti del nostro linguaggio e del nostro mondo evaporino in un pulviscolo infinito.

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