Il cambiamento di Roma passa da una nuova politica culturale
Luca Bergamo in questi mesi non è finito quasi mai sulle pagine dei giornali e lui stesso riconosce che è un bene. Il nuovo assessore alla cultura della giunta Raggi non è stato coinvolto nelle polemiche, le beghe interne, i retroscena e le smentite, le inchieste e le illazioni che sono la cronaca di una lunga estate della prima amministrazione romana cinquestelle. Il comprensibile desiderio di non essere travolto dalle sabbie mobili del commento politico, il sottrarsi alla richiesta compulsiva di dichiarazioni e la fortuna contingente di non doversi occupare direttamente di candidature olimpiche, di emergenza rifiuti o del ricollocamento dei centri per i migranti in transito, non spiegano però del tutto una pacatezza che invece è caratteriale.
Faccia da ex ragazzo, sguardo mite, un tono di voce che può essere scambiato per dimesso e che induce chi non lo conosce a trarne un’impressione di modestia, Bergamo è arrivato a lavorare con la sindaca Raggi dopo un’antica militanza a sinistra (ex Fgci), una collaborazione con le giunte di centrosinistra a Roma negli anni novanta (è stato lui a inventare il laboratorio di politica culturale Zoneattive con cui organizzava un grande festival pop, Enzimi) che si è rotta e non più ricucita e che l’ha portato per una decina d’anni fuori dell’Italia – a Bruxelles dove è stato a capo di Culture action Europe, una rete di 80mila organizzazioni culturali di tutto il continente.
Il suo nome ai cinquestelle l’ha fatto Tomaso Montanari, il primo a essere candidato come assessore alla cultura; del resto Luca Bergamo si era già ritrasferito a Roma e aveva tentato di creare una lista civica attraverso una serie di incontri intitolati Contaci, a cui aveva partecipato soprattutto un gruppo trasversale, critico nei confronti del Pd, legato all’esperienza di Ignazio Marino, con l’ambizione di innescare a sinistra un movimento di partecipazione dal basso competitivo rispetto ai cinquestelle.
Bergamo è stato un testimone e un attore impegnato in una lunga trasformazione della politica, e oggi farne un bilancio vuol dire già in parte comprendere che tipo di progetto si può avere per la città.
Un duplice esito
“Gli anni novanta sono stati una fase espansiva: tutti quanti pensavamo che il futuro fosse luminoso. Non è stato purtroppo così. Enzimi e Zoneattive già nascevano però per controbilanciare un modello di politica culturale tutto basato sul consumo e non sulla produzione, sul mainstream e non sulla ricerca; questo in un contesto culturale, come la Roma di quegli anni, ancora molto familistico, attori figli di attori, registi figli di registi, artisti nipoti di artisti. In più c’era un’idea stupida, quella di una generazione X che non ha nulla da dire. Enzimi provò a smentire tutto questo. La prima campagna pubblicitaria recitava, per esempio: ‘Tuo padre dice che hai troppi grilli per la testa. Dimostragli che è vero’. L’idea iniziale era una specie di Hyde park delle arti e dei mestieri in cui venissero fuori i talenti; la verità è che fare un Hyde park di quella scala era al di fuori delle nostre possibilità. Per cui provammo a integrare le scuole, i laboratori – con cui far vedere dov’era questa capacità creativa diffusa, magari ancora non professionale – con una parte di evento. Ma l’evento era solo la punta di un iceberg per qualcosa che volevamo strutturare, e per questo inseguivamo dei luoghi dove potessimo lasciare tracce permanenti (l’ex mattatoio, ponte Lanciani) e cercavamo di fare formazione culturale”.
Di quello spirito, di quelle intenzioni, è rimasto poco, e il nodo con cui Bergamo non solo da assessore si deve confrontare è il fallimento della sua visione: quella grande vitalità, anche informale, degli anni novanta, se era la punta di un iceberg lo era solo perché il Titanic della politica del novecento stava andando a schiantarcisi. Di lì a poco avremmo assistito a un duplice esito: la professionalizzazione burocratica degli operatori culturali accompagnata dal ritorno all’underground (non pagato) di molti artisti inventivi.
“È vero, il fallimento c’è stato. Il comune non è mai riuscito a capire l’importanza della strutturazione invece che degli eventi”.
Se la cultura è stato lo spazio per cui molte persone, anche molto giovani, negli anni novanta volevano impegnarsi e fare politica, quella possibilità si è dimostrata fatua: la militanza è diventata nella maggioranza dei casi un lavoro con cui sbarcare il lunario. Di fronte alla crisi diffusa, una generazione delusa e impaurita, ha imparato – quando le è andata bene – a compilare bandi e a raccogliere le briciole delle risorse pubbliche. Chi ha continuato a immaginare di connettere attivismo politico e progettazione culturale, immaginazione e conflitto, è stato nel migliore dei casi un outsider, se non un residuato.
“La politica per me invece è stata ed è una grande occasione di emancipazione umana. Quando facevo Enzimi facevo politica, non facevo certo il tecnico. Il problema è che i partiti hanno perso quella capacità di tenere insieme quelle persone che la pensavano così, e quindi chi ha provato a non mollare il campo ha cercato di ricreare delle occasioni, delle reti, per immaginare nuovamente di continuare a fare politica, anche al di là della crisi dei partiti. Del resto questa professionalizzazione burocratica della politica io l’ho vissuta in maniera molto netta nella mia esperienza europea a Bruxelles. Anzi, paradossalmente, il fatto che io non fossi un tecnico di formazione, di esperienza, è stata la ragione per cui sono diventato il segretario generale di Culture action Europe. Anche lì, all’inizio della costruzione dell’Europa c’era l’idea che la cultura fosse il building block dell’identità europea, poi tutte queste reti compresa Culture action Europe sono diventare delle lobby del settore, utili a mediare tra le varie esigenze dei vari professionisti di quella o quell’altra disciplina. Io sono stato scelto forse proprio perché non ero il lobbista classico”.
Non si può più pensare che la politica sia l’entità a cui si va a chiedere qualcosa. Ognuno deve farsi carico di un pezzetto di responsabilità in questa fase critica
Luca Bergamo ha l’abitudine, mentre parla, di voler connettere macroscopico e microscopico, di non rispondere in modo secco, di tenere unite premesse e conclusioni apparentemente lontane. Il 6 settembre, in un incontro pubblico organizzato al teatro Quarticciolo, gli hanno rimproverato proprio questa sua astrazione. Ma lui insiste e ripete per l’ennesima volta un discorso che evidentemente gli è caro.
“L’epoca che stiamo vivendo non può essere descritta in termini di un ciclo per cui poi si ritorna al punto iniziale. Per l’Europa questo passaggio in più è epocale, stiamo parlando della chiusura di un periodo di cinquecento anni di storia, che per altro comporta un effetto enorme sulla demografia, e quindi per il welfare, e per la spesa pubblica. Non si può più pensare che la politica sia l’entità a cui si va a chiedere qualcosa, ma ognuno deve farsi carico di un pezzetto di responsabilità in questa fase critica. Se prendiamo l’esempio dei musei britannici, vediamo come già ora non siano più pensati come luoghi semplicemente ‘da visitare’, ma come spazi dove fare esperienza insieme di una crescita culturale che è connessione sociale, progettazione politica… Per questo dico che non possiamo accettare che la politica si sia ridotta a uno strumento per far valere le proprie rivendicazioni individuali, lo specchio di una società competitiva. Il concetto di cooperazione è scomparso, è questa la vera crisi”.
L’utopia morbida
Ma Roma? È questa poi la domanda con cui lo incalzano tutti, i librai e i teatranti che erano nella platea del Quarticciolo, i giornalisti che seguono e forse concordano in generale anche su questa visione sistemica ma poi vogliono nomi, tempi, delibere, i cittadini che vorrebbero un’offerta culturale accessibile.
“Con Roma il livello del disagio è talmente profondo che quando cerchi di creare un terreno più solido da cui ripartire, arriva, giustamente, la domanda: ‘Come mi risolvi questo problema?’. La sfida è provare a convincere l’interlocutore che la soluzione a quello specifico problema non è dissociata dal fatto che devi rimettere mano a tutto l’organismo”.
Questo tipo di utopia morbida non è priva di fascino, ma la replica che si fa oggi a chi riprende quell’idea espansiva degli anni novanta è che non ci sono soldi, e che l’idea della produzione culturale come volano di un’economia sociale diffusa contribuisce invece ad aumentare il debito pubblico, a lasciare le amministrazioni con le casse disastrate.
“In realtà questo non è vero. Quando sono andato via, Zoneattive ha chiuso con un utile di 800mila euro, e il contributo del comune di Roma, del 95 per cento, era sceso al 45. È vero che godevamo di condizioni finanziarie oggi scomparse, però non è quello il punto. Quello che non ha lasciato Zoneattive è l’eredità, quel processo, quell’energia così importanti per creare. In tutta onestà, io ho gestito Zoneattive facendo la guerra al comune, a molti pezzi del comune”.
A Roma, negli ultimi dieci anni, è cresciuto un gruppo di persone che ha svolto un lavoro di supplenza e oggi vuole che gli sia riconosciuto
L’eredità non neutra che ha lasciato Zoneattive è anche però quello strano monstrum che è la società partecipata del comune di Roma che si occupa di cultura, ossia Zètema. Nata come lo strumento per guidare meglio tutta la parte logistica e organizzativa degli eventi culturali, Zètema è cresciuta su se stessa, diventando una specie di doppione dell’assessorato alla cultura, con una possibilità di progettazione artistica e di direzione politica molto forte, e con una quantità di dipendenti impressionante – quasi mille persone.
Funzione strumentale
“Il problema esiste, ed è vero: è doppio. L’essere diventata da strumento una realtà che decide, e l’espansione quantitativa. Su come sia avvenuta questa espansione quantitativa, su come le persone siano state scelte, assunte, io non lo so, dopo di che osservo un fenomeno: c’è una distorsione che non funziona. Zètema dev’essere ricondotta alla sua funzione strumentale, ai servizi tecnici e gestionali, e questo percorso va visto in parallelo a una nuova idea di guida per la città: la funzione che dovrebbe avere un rinnovato Palazzo delle esposizioni come guida della città per tutto quello che riguarda il contemporaneo. Ci dev’essere poi anche un riordino dei ruoli, anche per delle leggi che obbligano a fare questo, in modo da capire chi lavora per Zètema e chi per il comune, senza sovrapposizioni. Per ora vedo una trasformazione qualitativa, sul ridimensionamento quantitativo però faccio notare invece che oggi queste aziende possono avere una parte delle loro attività – il 20 per cento – legato al mercato e non più alle istituzioni pubbliche. La manovra nel suo insieme non credo che porterà a una contrazione dei posti di lavoro, ma va guardato l’intero sistema”.
Sembrano delle dichiarazioni tecniche, queste su Zètema, ma bisogna coglierne il senso di rapporto con la città. La realtà di cui si sta rendendo conto Luca Bergamo è che negli ultimi dieci anni in città è cresciuto un gruppo molto vasto di persone che, anche per le difficoltà, le inerzie e le assenze di una politica istituzionale, ha svolto un lavoro di supplenza e che oggi non ci sta a ricoprire ancora una funzione ancillare ma anzi pretende che questo impegno sia riconosciuto e valorizzato. L’esperienza del teatro Quarticciolo è emblematica: due artisti (la regista Veronica Cruciani e l’attore Ascanio Celestini) decidono di occuparsi direttamente della gestione di un teatro partecipando a un bando pubblico proprio perché hanno visto come molti mediatori culturali siano stati incapaci di farlo. L’esperienza del teatro Valle – tre anni di occupazione, autogoverno e il tentativo di immaginare una nuova forma di governo basata sui beni comuni – è ancora più paradigmatica.
“Le persone che hanno idee, capacità, energia le trovi sia dentro sia fuori le istituzioni culturali. Se pensi alle biblioteche, ma anche a diversi altri presìdi, associazioni eccetera, c’è un panorama immenso di pensiero, ci sono competenze e conoscenza della città o specifica di una realtà di quartiere. Come si fa a mettere a valore tutto questo? Occorrono dei luoghi fisici, dove i dibattiti possano avere un ciclo continuo. Ma ci dev’essere anche un’entità di raccordo, se vuoi una consulta, un contesto di riferimento con cui io e l’assessorato con me ci mettiamo in gioco anche per le scelte d’indirizzo. Questa è una parte della risposta; l’altra è in una sperimentazione sul cinema Aquila (un cinema del quartiere Pigneto chiuso da più di un anno ndr). Invece di aprire un bando per la sua gestione, facciamo un altro tragitto: 75 giorni di consultazione permanente, non in modo assembleare, ma con tavoli progettuali, in cui l’idea non è discutere con gli stakeholder, con gli interessi, ma delle funzioni. In un secondo momento, dopo aver capito cosa è necessario, facciamo un bando che provi a rispondere a quelle richieste”.
Bergamo ci tiene a fare un’altra cosa, e questo forse è il passaggio più interessante del suo progetto per l’assessorato: provare davvero a far tesoro di quello che già esiste
Sulle modalità di partecipazione dei cittadini si gioca molta della credibilità del progetto di Bergamo. Ci sono tanti luoghi nella città che sono diventati cruciali perché hanno creato un rapporto con il territorio, e non si tratta solo di centri sociali più o meno storici, o di occupazioni recenti, come il Nuovo cinema palazzo o Scup, ma di un pulviscolo di associazioni che le ultime delibere della giunta Marino e Tronca rischiavano di spazzare via, attraverso la richiesta di affitti impossibili, la famosa 140. Bergamo ci tiene a fare un’altra cosa, e questo forse è il passaggio più interessante del suo progetto per l’assessorato: provare davvero a far tesoro di quello che già esiste, comprendere come il rischio di bandi che cadono dall’alto privilegi magari dei professionisti che però non hanno nulla a che fare con quel territorio o con una certa esperienza ormai radicata.
“Come emerge allora una leadership condivisa che non sia dentro l’amministrazione ma che non sia neanche del tutto fuori? Non lo so ancora bene. L’unica cosa di cui sono convinto è che non vorrei che ci fosse una città che domanda e un’amministrazione che risponde”.
Lo statuto del Valle e il Talmud
È una buona intenzione, e dispiace davvero che durante tutta l’esperienza del teatro Valle Luca Bergamo fosse a Bruxelles per lo più – “anche se sono socio”. È realmente un peccato che di quella lunga occupazione si sia smarrito l’aspetto di immaginazione di una nuova politica a scapito della questione sull’assegnazione del teatro.
Gli oltre tre anni di occupazione sono stati soprattutto questo: c’erano migliaia di spettatori e lavoratori che sono diventati protagonisti, soci, soggetti attivi, che avevano ripreso la voce animando le assemblee e occupandosi direttamente della stesura dello statuto. E ora? Aspettano, tristemente, di tornare a essere meri abbonati?
Anche rispetto al Valle, Bergamo si muove con cautela: “Occorre prendere lo statuto del Valle e trattarlo come si fa con il Talmud. Ossia tu hai ormai la regola, la carta. Però la regola viene dalla versione orale, che non poteva essere trascritta. Sotto la regola hai l’interpretazione della regola, però al lato c’è l’insieme del dibattito. In questi testi antichi tu hai un aspetto importante: l’elemento determinante non è la regola, ma i concetti che hanno portato alla formulazione di quella regola, il che si pone paradossalmente anche per la costituzione italiana. Tu ti trovi di fronte a un oggetto normativo e non sei in grado di ricostruire il dibattito. A me piacerebbe fare una ricostruzione di quel dibattito, per esempio con tutta la discussione sui beni comuni”.
E allora arriviamo al punto sempre discriminante: l’autogoverno. L’autogoverno che è altra cosa rispetto alla delega, ma anche alla democrazia diretta e alla partecipazione. Questo si è ben capito a Roma, in questi anni di crisi delle istituzioni, di occupazioni contrastate con gli sgomberi, con i commissariamenti; l’esperienza del teatro di Ostia – definanziato e poi gestito dal basso – o oggi quella di Roma Decide per esempio è proprio il tentativo di capitalizzare questa consapevolezza.
“Io sono abbastanza convinto che per tutto il patrimonio minore, quello culturale, quei meccanismi, autogoverno o governance partecipata – perché sul patrimonio devi portarti dietro tutte le competenze specifiche – sono gli strumenti di ricostruzione di un welfare di comunità. Non c’è una via di mezzo. La versione del novecento del potere democratico non funziona più. E credo che il Valle, ma in generale il community welfare sia proprio il modo in cui si rompe un contesto di individualismo, di frammentazione, di solitudine sociale. Io non ero al Valle e quindi non sono in grado di capire quanto quell’esperienza sia riproducibile o meno: mi rendo conto che lì è stato piantato un seme importante che ha messo radici”.
È confortante sentire un assessore non fare autopromozione al suo mandato, né parlare in politichese, né scandire semplicemente un cronoprogramma di delibere da mettere in atto. Ma è evidente che un politico che ragiona in questo modo, oggi a Roma possa passare per velleitario – l’emergenza della gestione quotidiana è amplificata in questa città da anni di mancata progettazione a lunga durata, ma non per questo è meno urgente.
“La questione non è tamponare, ma anche dotarsi di strumenti giuridici migliori. Il mio riferimento politico in Italia è Sabino Cassese, che ha confrontato il sistema francese con quello italiano, mostrando come in Francia ci fossero 7.500 leggi contro le 150mila norme vigenti in Italia. La verità è che noi continuiamo a normare per casi specifici, producendo leggi che si sovrappongono l’una con l’altra e l’attuatore si trova sistematicamente nella posizione di sostituire il decisore, invece di rispettare quello che sarebbe il suo ruolo, ossia interpretare. Così gli attuatori oggi hanno un enorme potere di discrezionalità, che è un danno anche per loro, perché spesso li porta all’immobilismo, perché tutti hanno paura che facendo una certa scelta si vada contro un’altra norma, e per cui sono poi indagati per danno erariale, per esempio, se non per un reato penale. Con la corte dei conti che ti distrugge magari per una svista o per l’impossibilità di cambiare certe cose, alla fine preferisci anche tu non fare niente, e tutto resta bloccato. E il problema più grosso che noi abbiamo oggi è proprio la revisione dei regolamenti. E la questione della delibera 140, dell’assegnazione degli spazi, degli sgomberi, sta tutta in questo scenario”.
Però c’è la questione dello sgombero del Corto Circuito, uno dei centri sociali storici di Roma, e sembra una contraddizione rispetto a quanto appena detto.
“Bisogna essere cauti. Dalle informazioni disponibili in questo momento si tratta di un intervento, disposto dall’autorità giudiziaria per ispezionare alcuni manufatti e una parte dello spazio, avvenuto in presenza dell’avvocato dello stesso Corto. L’ispezione avrebbe condotto all’apposizione di sigilli su alcune realizzazioni abusive senza però investire la palestra e il parco che restano agibili. Io non voglio assolutamente che si perda un’esperienza fondamentale, bisogna in fretta trovare strumenti per valorizzare esperienze di questo tipo e allo stesso tempo ricostruire una necessaria legalità”.
La politica ha bisogno di regole utili e di un controllo possibile
C’è un’ultima questione che Bergamo vuole affrontare, anche questa apparentemente tecnica, ma la cui comprensione investe invece tutti coloro che lavorano con la cultura a Roma, e non sono davvero pochi: la questione contributi versus finanziamenti.
“So che c’è una preferenza per lo strumento dei finanziamenti, anch’io li preferivo all’epoca di Enzimi. Però il finanziamento è di fatto l’acquisto di una prestazione. Il contributo è un’altra cosa: è la decisione di una pubblica amministrazione di dire che esiste un’attività privata rilevante che ha un valore sociale e civile e culturale, e siccome l’economia di quell’attività non è sufficiente a garantirne il funzionamento l’amministrazione interviene con un contributo. Però, a tutela dell’interesse pubblico chi lo ottiene deve dimostrare di saper fare veramente il suo mestiere. L’Unione europea, per esempio, definisce finanziamento quello che in realtà è un contributo. Bisogna fornire il rendiconto analitico del modo in cui sono stati spesi i soldi. Io sono convinto che il contributo sia lo strumento giuridicamente corretto e anche politicamente più giusto. Poi però bisogna semplificare le procedure, di rendicontazione e di regolamentazione, per spendere i soldi in un’attività che è di per sé aleatoria come un evento culturale. Per esempio: si deve girare la scena di un film e invece oggi piove, e si spostano le riprese di un giorno. La produzione non deve essere costretta a chiedere l’autorizzazione rifacendo tutta la procedura. Le norme devono prevedere una flessibilità per cui per esempio si possa spostare l’uso delle risorse, magari all’interno dello stesso capitolo di spesa o tra i capitoli di spesa. La politica ha bisogno di regole utili e di un controllo possibile”.