Le lezioni che ci ha lasciato Alessandro Leogrande
Nella notte tra il 25 novembre e il 26 novembre del 2017 è morto lo scrittore e giornalista Alessandro Leogrande. Il suo funerale è stato un momento impressionante: all’improvviso ci siamo resi conto di un’evidenza che era di fronte ai nostri occhi. Leogrande era il migliore tra gli intellettuali, i giornalisti e gli attivisti della sua generazione. Nicola Lagioia, scrittore e direttore del Salone internazionale del libro di Torino, mi disse: “Dobbiamo fare di tutto adesso per proseguire il lavoro che ha fatto, per provare a colmare quel vuoto”. Gli risposi che era materialmente impossibile.
Nessuno di noi avrebbe avuto né il tempo di formarsi sulle migliaia di testi di storia, sociologia, filosofia, letteratura che lui aveva letto, mentre noi ci eravamo persi nelle mode letterarie e politiche del momento. Né la capacità e la voglia d’intrecciare le centinaia di relazioni che Leogrande ha intrecciato per scrivere i suoi articoli, le sue inchieste, cercando e conoscendo le persone giuste, quelle che non avevamo avuto l’intelligenza di riconoscere come le voci più interessanti per capire il nostro tempo e i nostri luoghi, le ultime generazioni degli operai dell’Ilva, le famiglie delle vittime del caporalato, i sindacalisti di origine straniera, i maestri imprevedibili.
Ma non era solo questo. Leogrande non è stato soltanto il recettore e il traduttore della migliore cultura che l’Italia ha visto nascere: il meridionalismo di Gaetano Salvemini, il socialismo di Giuseppe Di Vittorio, il pacifismo di Danilo Dolci e Aldo Capitini. Goffredo Fofi, che gli ha fatto da fratello maggiore, fino ad ammettere il proprio di debito – la sua prefazione al libro postumo Dalle macerie è un colpo al cuore – è colui che di più sta portando quest’eredità dolorosa di cui avremmo voluto davvero fare a meno.
Leogrande ha mostrato anche quanta chiarezza può produrre il rigore di una lettura marxista della società: qualunque ideologia va sempre interpretata su più livelli, sembrava ricordarci, individuando struttura e sovrastruttura. Nell’epoca dei giornalisti e degli scrittori innamorati delle mille fenomenologie, dell’impegno fatto di dichiarazioni d’intenti, è stato un modello rarissimo d’interprete e non di testimone.
Ho imparato molte cose da lui quando era in vita: da lettore, da collaboratore, da editor, da amico. Ma visto che non c’è più, non è detto che si debba smettere di imparare. Qui ho provato a elencare alcune sue lezioni.
Il lavoro sul campo
Essere scrittori non garantisce automaticamente un osservatorio privilegiato. La famosa rivendicazione di Pier Paolo Pasolini sul sapere più profondo degli scrittori – “Io so ma non ho le prove” – per Leogrande si poteva trasformare facilmente in una falsa pista. Pur avendo a disposizione una quantità di saperi che potevano aiutare a inquadrare un fenomeno, un caso o una notizia, si fidava moltissimo delle verità a volte meno affascinanti che provenivano dall’analisi sul campo, o – in maniera più prosaica – delle indagini di un magistrato inquirente.
Il 19 maggio 2012 esplose una bomba in una scuola di Brindisi: morì una ragazza e ci furono dieci feriti. Si pensò alla Sacra corona unita, al terrorismo di matrice islamista o brigatista.
Il pezzo che scrisse sul Corriere del Mezzogiorno (e ripubblicato su Nazione Indiana) all’indomani dell’attentato è un modello di giornalismo. Un articolo pieno di domande, di riferimenti precisi alle ipotesi investigative e a quelle invece più letterarie:
“Chi ha messo le bombe di Brindisi? E quanti erano gli attentatori: uno, due, più di due? Le due domande, sinora prive di una risposta certa, sono strettamente intrecciate tra loro, quasi in un gioco di rimandi logici. Escluse di fatto dagli inquirenti come piuttosto improbabili sia la pista mafiosa che quella del terrorismo anarco-insurrezionalista, solo due ipotesi restano sul terreno. La prima è stata avanzata dal procuratore Dinapoli il giorno dopo dell’attentato: si tratterebbe un ‘gesto individuale’. Beninteso, ‘individuale’ non è automaticamente sinonimo di ‘folle’. Potrebbe segnare invece l’irrompere di forme di terrorismo nichilistico-individuale nel nostro paese, un tipo di terrorismo nord-americano o nord-europeo (…) Ma se l’uomo immortalato dalle telecamere del chiosco verde situato davanti alla Morvillo Falcone ha avuto uno o più complici, le cose cambiano. Saremmo allora in presenza di un evento organizzato da un gruppo, tesi peraltro per cui propende il procuratore Cataldo Motta. In questo caso non ci sarebbero turbe individuali da scandagliare psicologicamente, e chi ha piazzato la bomba proprio lì, in quel giorno, ha voluto consapevolmente giocare con i simboli: i nomi di Falcone e Morvillo, l’avvicinarsi dell’anniversario della strage di Capaci, la vicinanza del tribunale… Perché? Con quale finalità? E soprattutto: se si tratta di un gruppo di persone, chi sono?”.
Politica e consumismo
Ecco un’intuizione di Leogrande che ricordo ancora: le forme in cui si manifesta una rivolta spesso rivelano una sostanza che ne contraddice le ragioni. Il pezzo che Leogrande scrisse a caldo sul blog minimaetmoralia dopo la manifestazione del 15 ottobre 2011 in piazza San Giovanni a Roma contro il governo Berlusconi metteva in luce un aspetto fondamentale di questi anni: la politica come semplice esibizione può essere una forma di consumismo. Non parla esplicitamente di riot porn, ma denuncia una delle questioni fondamentali della politica di sinistra negli ultimi anni: come prendersi le responsabilità delle lotte.
“La prima cosa che mi viene da dire contro i fascisti, gli infiltrati, il blocco nero, cioè tutti coloro che hanno rovinato la manifestazione del 15 ottobre a Roma, è che avete profanato piazza San Giovanni, un luogo cardine della storia del movimento operaio italiano. Lo avete fatto pensando che l’unica manifestazione buona è quella violenta, che l’unica cosa che conta non sia affermare quello in cui si crede, elaborare una strategia matura di lungo periodo, ma scontrarsi con violenza contro la polizia. (…) La seconda cosa che mi viene in mente è che siamo qui a dire e ridire cose che diciamo da dieci anni. Basta con la spirale ‘violenza di pochi-repressione per tutti’. Basta con i soliti vicoli ciechi. Basta con la coreografica messa in scena di chi organizza la propria violenza, in molto talmente coreografico, nel suo gioco delle parti con le forze di polizia, da non avere niente di spontaneo. (…) La terza cosa che mi viene in mente è una riflessione sulle vostre facce, le vostre urla, la vostra foga piccolo-borghese di chi in realtà ha poca esperienza del mondo. Mi ha colpito il fatto che molti di voi fossero ragazzini di 16-17, al massimo 20 anni. (…) Da dove uscite fuori? In quali luoghi, su quali libri, attraverso quali lotte vi siete formati in questi anni? Cosa pensate della politica, dal momento che non avete altre idee di manifestazione politica che questa?”.
Partiti e movimenti
Leogrande era consapevole che bisogna studiare le organizzazioni, il tessuto dei corpi intermedi, la capacità dei partiti e dei movimenti di produrre egemonia culturale. Facciamo un paio di esempi speculari. Nel 2010, a proposito della Lega – allora al 12 per cento – riusciva a cogliere i suoi elementi di forza e ne scriveva sulla rivista Lo straniero:
“Il punto, ora, non è dire che Bossi sia più potente di Berlusconi, e nemmeno scoprire che la tenaglia costituita dal partito di ferro da una parte e il largo consenso interclassista raggiunto dalla Lega nelle regioni più ricche del paese dall’altra, possa essere fatale per il Cavaliere. Il punto reale della questione è constatare come la Lega (che diventa sempre più forte, man mano che il fronte del berlusconismo politico si riduce) ha già creato le precondizioni per sopravvivere a un’eventuale fine del governo Berlusconi. Controlla già le regioni del Nord (…) eserciterà un ricatto enorme su qualsiasi tipo di destra italiana, e sull’Italia intera”.
Nel 2015 sapeva individuare su Internazionale i segni di debolezza del Partito democratico di Matteo Renzi, che aveva preso il 40,8 per cento alle elezioni europee:
“Al livello territoriale, nell’infinita provincia italiana, Renzi non riesce a essere così autorevole (o autoritario, a secondo dei punti di vista). Il filo diretto con gli elettori, il consenso nei confronti del leader, va a sbattere sistematicamente contro l’intelaiatura dei poteri reali (politici ed economici) delle cento città. (…) C’è uno scarto netto tra la politica nelle immediate vicinanze di palazzo Chigi (chiamiamolo mondo A) e il cosiddetto paese reale (chiamiamolo pure mondo B). Nel mondo A c’è un partito che si vuole ‘partito della nazione’ e che incontra alla sua destra e alla sua sinistra un’opposizione frantumata. Nel mondo B (né migliore, né peggiore a priori, ma quasi sempre più feroce e avanzato dell’altro) quel partito si sta facendo sistema vischioso, inglobando tutto”.
Taranto e l’Ilva
Un’altra cosa che si può imparare dal lavoro di Leogrande è che per capire in profondità il presente non si può prescindere dalla dimensione storica e da quella economico-sociale. In questo senso, tutti gli scritti sull’Ilva sono un grande esempio. Taranto – stretta tra la tutela di e ambiente e salute e quella del lavoro – riesce a essere compresa e reimmaginata solo alla luce della sua storia.
Prima di Dalle macerie, su questi temi nel 2013 Fandango aveva pubblicato un’altra raccolta, Fumo sulla città, curata da Mario Desiati. Tra le cose più belle e toccanti che ci ha lasciato ci sono poi gli audio su Radio3.
In quello sulla storia dell’Italsider riesce a rintracciare già nella crisi di vocazione sociale e industriale a metà degli anni cinquanta, e nello spirito ciecamente sviluppista della fabbrica nata nel 1961, la radice dei mali futuri. In diversi pezzi ricorda l’analisi del giornalista Walter Tobagi sull’Italia del sud. Questo è tratto da Dalle macerie:
“Viene in mente il Walter Tobagi che adotta per primo, in relazione a Taranto, l’espressione ‘metalmezzadro’. La Taranto che descrive Tobagi nel 1979, pochi mesi prima di essere ammazzato, è una città che presenta tutte le contraddizioni esplose nei trent’anni successivi: in una città che allora aveva il Pil pro capite più alto del Mezzogiorno, e che dell’industria percepiva solo le ‘magnifiche sorti e progressive’, quel gigantismo industriale mostrava già chiaramente i suoi piedi d’argilla. Non solo perché, visto retrospettivamente, quello sviluppo siderurgico non avrebbe avuto lunga vita, incontrando presto la crisi del mercato mondiale. Il motivo era soprattutto un altro: la fabbrica appariva a Tobagi come una cattedrale nel deserto che aveva pochi rapporti con la provincia limitrofa. Non aveva generato un indotto virtuoso. E, d’altro canto, benché una delle tesi correlate alla creazione del polo industriale fosse quella che esso avrebbe favorito la creazione di una nuova classe operaia, di un nuovo mondo del lavoro e del diritto, a Taranto, più che una classe operaia nel senso sociologicamente più stringente del termine, si è creata una composizione più complicata, in cui la fetta dei cosiddetti ‘metalmezzadri’, cioè di coloro i quali venivano a lavorare in città dai piccoli paesi della provincia ma poi la sera tornavano in provincia, mantenendo intatte le strutture culturali del Sud agricolo, era rilevante”.
Trasformare il proprio tempo
Alessandro Leogrande credeva nella possibilità delle persone di trasformare il proprio tempo, e aveva un’idiosincrasia per l’autoindulgenza, che diventa resa e deresponsabilizzazione. Molti dei suoi articoli potrebbero essere letti come una sorta di dimostrazione narrativa di questa fede. Uno dei più potenti è il reportage su Vito Alfieri Fontana, prima titolare di un’azienda che produceva mine e poi sminatore, pubblicato nel 2014 su Pagina 99, giornale per cui aveva curato reportage e inchieste:
“Vito ha progettato la Ts50, una particolare mina antiuomo costituita da due dischi sovrapposti, sormontati da una piastra superiore che una volta schiacciata – ed è estremamente facile schiacciarla – attiva il detonatore. Poiché l’Egitto ha girato le mine inventate dalla Tecnovar agli eserciti impegnati in tanti fronti di guerra, oggi si può dire che di Ts50 è infestato mezzo mondo (…) Vito capisce che produrre mine vuol dire produrre uno strumento infame e stupido di distruzione (…) ‘La pugnalata più forte me la diede una volta mio figlio. Stavamo in macchina, io avevo un catalogo della Tecnovar sui sedili posteriori, e lui, era piccolino, cominciò a farmi domande sul perché proprio io dovessi produrre armi. Io provai a dirgli che qualcuno doveva pur farle, ma lui mi richiese a bruciapelo: sì, ma perché proprio tu? Allora ho capito che quella era l’unica domanda che davvero contava: la domanda che non mi ha aveva fatto nessuno’”.
L’Albania e l’ex Jugoslavia
Un valore in più deriva dall’andare nei posti anche molto tempo dopo che in quei posti è successo qualcosa, così da raccontarne le conseguenze sul lungo periodo. Un ottimo esempio in questo caso è l’interesse che Leogrande aveva sviluppato per l’Albania. Da giovane aveva raccontato il contrabbando in Le male vite e la vicenda del naufragio della nave Katër i Radës in Il naufragio. Tutto questo si era trasformato in un’incredibile attenzione per l’Albania di oggi.
Il 7 settembre scorso gli è stata intitolata una strada proprio in Albania, alla presenza del sindaco di Tirana. Nel 2015 aveva scritto un reportage su Tirana per Internazionale che raccontava l’eredità di Enver Hoxha, ridotto ormai a reliquia:
“Al culmine della paranoia per l’invasione da parte di un imprecisato nemico straniero, l’Albania comunista degli anni settanta si riempì di centinaia di migliaia di bunker. Costruiti in cemento armato e capaci di ospitare al loro interno tre, quattro, cinque persone si diffusero come un’epidemia in tutto il paese. Furono costruiti con l’aiuto della Cina, ai bordi delle periferie cittadine, lungo le strade e i sentieri di campagna, nei villaggi di montagna e in quelli di pianura, vicini alla costa adriatica”.
Un rapporto meno stretto e personale, ma simile per sguardo l’aveva mantenuto con un’altra terra ferita, l’ex Jugoslavia. A marzo 2017, pochi mesi prima della sua morte, era tornato a Sarajevo e aveva scritto un reportage per Altraeconomia, un testo bellissimo in cui ancora una volta mostra la lezione che aveva imparato dai migliori scrittori di nonfiction, da Truman Capote a Ryszard Kapuściński: lavorare sulla raccolta di informazioni e sul montaggio degli elementi fattuali per dare corpo al racconto.
“Nel settembre scorso, Elmedin Konakovic ha annunciato che gli alunni di tutte le scuole avrebbero dovuto studiare ‘l’aggressione contro la Bosnia Herzegovina e i crimini commessi durante la guerra’. Ma nella Bosnia del XXI secolo, sostanzialmente divisa tra le tre entità croata, musulmana e serba (le prime due raccolte nella Federazione croato-musulmana, la terza costituita dalla Republika Srpska), una frase del genere non è affatto innocua. Il punto su cui va a sbattere ogni tentativo di creare un programma scolastico minimamente condiviso tra le tre entità è proprio l’insegnamento della storia. Quella che per Konakovic è stata un’aggressione costituita da una serie di crimini contro civili inermi culminata nel genocidio di Srebrenica (luglio 1995), per i leader della Republika Srpska come Milorad Dodik è stata invece una ‘guerra civile’, combattuta da due parti contrapposte, che si sono macchiate delle medesime colpe. Ogni tentativo di creare una commissione tripartita per varare dei testi che includessero il punto di vista degli altri è sistematicamente saltato nell’ultimo ventennio. Il risultato è che nei dodici distretti in cui è divisa oggi la Bosnia si adottano dodici programmi scolastici differenti”.
L’Italia di domani
Leogrande è stato anche in grado di vedere che paese sarebbe stato l’Italia tra qualche anno, anticipandone i possibili conflitti, e lo ha fatto prima di molti altri analisti, scrittori e giornalisti. Ne è un esempio questo editoriale intitolato “Futuro: la nuova cittadinanza”, che pubblicò sul numero dello Straniero uscito tra il 2016 e il 2017:
“Quali potrebbero essere i temi per il prossimo decennio? Quali contraddizioni si acuiranno, quali raggiungeranno il punto di rottura? Mantenendo l’attenzione sulla sola Italia, una delle maggiori contraddizioni riguarda sicuramente la scissione di fondo tra l’aumento costante della popolazione straniera (o di origine straniera) e la loro scarsa, o nulla, rappresentazione politica (…) Quando il Muro cadeva, e il bracciante sudafricano Jerry Masslo veniva ucciso a Castelvolturno, facendo scoprire all’Italia nello stesso tempo lo sfruttamento dei campi e il razzismo, erano ancora poche centinaia di migliaia di persone. È evidente che nell’arco di un quarto di secolo è avvenuta una profonda mutazione del paese. Eppure alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe operaia e bracciantile straniera nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto)”.
Lucidità
Molte persone che conoscevano bene Alessandro ricordano la sua lucidità. Che cosa vuol dire lucidità? È un eufemismo per intelligenza? È un elogio della maturità intellettuale che abbiamo pudore di attribuire a quello che per temperamento e idealismo spesso sembrava un ragazzo?
Penso che la lucidità sia una specie di esercizio illuministico che non tocchi solo lo sguardo ma anche la coscienza: ha a che fare con l’attitudine a saper interpretare lo spirito del tempo tanto quanto con la volontà di decidere da che parte stare senza opportunismi o ingenuità. A questo proposito, nel 2009, anno di elezioni europee – dieci anni prima di quelle del 2019 – Leogrande scriveva in un pezzo che si può rileggere su minimaetmoralia:
“Forse non sopravviveremo al berlusconismo. E per una volta, per berlusconismo, non intendiamo una sorta di carattere antropologico degli italiani, un loro sentire e fare maggioritario, un’onda lunga della storia recente che informa la prassi privata e politica indipendentemente da chi effettivamente governa. No: questa volta intendiamo proprio il berlusconismo politico. Oggi, per la prima volta, l’Italia, e soprattutto quel che resta della sinistra italiana, corrono il forte rischio che Berlusconi non abbandoni per molti anni le stanze del potere. Che sia Palazzo Chigi o il Quirinale, che il neonato Pdl arrivi al 40 per cento, al 45 per cento o al 51 per cento, che il peso della Lega sia o meno determinante per gli equilibri parlamentari, l’ipotesi che Berlusconi rimanga saldamente al comando è più che concreta. Allo stesso tempo, però, mai come oggi si ha la sensazione che a produrre questa situazione non sia stata la ‘rivoluzione berlusconiana’ (forte, anche esteticamente, a metà anni novanta; tutto sommato abbastanza senescente oggi), non sia stato un particolare disegno autoritario (per quanto le intenzioni di svuotare delle loro funzioni e autonomia gli altri poteri, legislativo e giudiziario, ci siano tutte), non sia stata (ancora, almeno) l’involuzione sostanziale delle nostre istituzioni. È stato (soprattutto) il crollo disarmante delle opposizioni. La loro liquefazione politica, culturale, sociale. Il loro riprodurre in farsa un ruolo che invece nelle democrazie è nevralgico”.
La voce degli scrittori
Cosa ce ne facciamo degli scrittori? Dobbiamo prendere esempio da quelli impegnati, dissidenti, resistenti? Perché usiamo la loro voce come arma di fronte alla propaganda del potere autoritario? Molte volte Leogrande ha recensito, presentato e ospitato tra le pagine dello Straniero scrittori e giornalisti che svolgevano e svolgono un ruolo di opposizione anche politica in diversi paesi del mondo. Qual è l’atteggiamento che ha assunto rispetto a queste voci? Questo è davvero importante. Leogrande non era un intellettuale da appelli, non amava il narcisismo del palco. Non era solo una questione di carattere, non li trovava utili alle cause.
A cosa serve allora la voce degli scrittori? Leogrande fa capire che non serve il volume. Occorre riconoscere invece coloro che hanno una capacità di trovare metafore, immagini, analisi, che sappiano risarcire la nostra intelligenza della violenza che opera il potere quando riduce la complessità e la bellezza del mondo a un quadro misero.
Nel 2015 sulle pagine dello Straniero parla di Luiz Ruffato, scrittore brasiliano, poco conosciuto in Italia. Legge i suoi libri e ci trova questo Brasile:
“Sostiene Luiz Ruffato, autore di bellissimi romanzi tradotti in italiano da La Nuova Frontiera, che esistono due Brasili. Un ‘Brasile immaginario’, fatto di calcio, musica, samba, spiagge, la cui idea (sapientemente costruita) è funzionale al discorso comune dello Stato e delle élites politico-economiche che governano, o quanto meno provano a gestire, l’ascesa economica di questi anni, culminata con l’organizzazione, a breve distanza l’uno dalle altre, di un Mondiale di calcio e delle Olimpiadi. Come spesso accade, lo sport ha sancito il trionfo di questo ‘Brasile immaginario’. Tuttavia la crescita economica si basa su disuguaglianze sociali, su differenze di classe, che Ruffato non esita a definire ‘pornografiche’. E qui arriviamo al ‘Brasile reale’, quello che scrittori come lo stesso Ruffato provano appunto a raccontare nei loro libri. Il Brasile reale è un paese estremamente razzista, in cui i neri sono esclusi dalle oligarchie economiche e culturali del paese. Il Brasile reale è un paese estremamente violento, e la violenza – come testimoniano le statistiche – è ormai un elemento talmente quotidiano e ordinario da apparire naturale. Il Brasile reale è un paese omofobico e maschilista. Il machismo riguarda tutte le classi sociali, tanto che le violenze sulle donne non avvengono solo nelle favelas, ma anche nei quartieri più ricchi”.
L’ultima intervista che Leogrande ha fatto – nell’estate del 2017 – è stata a Dag Solstad, scrittore norvegese, quindi di un paese che non riconosceremmo come a rischio di involuzione autoritaria come il Brasile di Ruffato. Leogrande era bravissimo nelle interviste, si preparava accuratamente e con domande complesse riusciva a ottenere molto di più di quanto ci si aspettasse dall’intervistato. Qui Solstad risponde così a una domanda sulla crescita dei partiti di destra come il Partito del progresso in Norvegia:
“Molte loro affermazioni sono del tutto simili a quelle che abitualmente definiamo fasciste. Tuttavia ‘fascismo’ è una parola da usare con attenzione. Non è facile dire cosa sia oggi il fascismo, ma è giusto chiedersi quale nome dobbiamo dare, ad esempio, a quello che sta accadendo in Ungheria o in Polonia. Non è corretto forse parlare di fascismo tout court, ma dobbiamo chiederci pur sempre quali parole usare per descrivere tutto questo. Se diciamo che il Partito del Progresso è veramente fascista allora dovremmo dire lo stesso dei partiti che si stanno affermando in mezza Europa. Per questo credo che dobbiamo maneggiare con cura le parole, non usarle incautamente, quando indicano fenomeni molto gravi. Ma allo stesso tempo non possiamo non chiederci come definire quello che sta accadendo, come definire oggigiorno quei precisi discorsi che a volte ci sembrano simili al fascismo”.
Potere, violenza e libertà
C’è un nodo che torna in quasi tutto ciò che Leogrande ha scritto ed è il rapporto tra potere e violenza da una parte; e libertà e giustizia dall’altra. Da un lato la questione è politica: come si costruisce un’organizzazione, come si governa uno stato, come si crea un movimento di lotta, non soltanto garantendo o rivendicando i diritti fondamentali, ma la libertà nel senso più grande del termine? Dall’altro lato è filosofica: che cosa si può fare di fronte alla sopraffazione, di fronte alla violenza? È intellettualmente commovente che forse la riflessione più acuta su questi nodi l’abbia sviluppata intorno alla pittura del Caravaggio. C’è un capitolo centrale del suo libro La frontiera, intitolato “La violenza del mondo”, di cui vale la pena riportare un lungo brano. Non è un caso che Luigi Manconi lo abbia rievocato in chiesa al funerale di Leogrande:
“In un pomeriggio assolato entro nella chiesa di San Luigi dei francesi. È insolitamente vuota, una manciata di turisti si aggira nella penombra. Mi dirigo automaticamente verso le tele del Caravaggio esposte sulle pareti della cappella Contarelli, la prima cappella alla sinistra dell’altare, e mi accorgo che sono ormai anni che non ci metto piede (…) Mi ritrovo incantato a guardare il Martirio, che come sempre cattura i miei pensieri ancora più della Vocazione. In quella scena di cruda, assoluta, improvvisa violenza si affollano le nostre debolezze di fronte al mistero del male. Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire. C’è un vecchio steso a terra, la barba grigia, i capelli stempiati, sembra essere scivolato pochi istanti prima. È Matteo. Ha una mano alzata verso l’alto, cerca di parare il colpo che sta per arrivare. Ma il polso, lo stesso polso che sostiene la mano aperta, è afferrato dalle dita del sicario. È lui il fulcro del quadro. Il centro intorno al quale tutto ruota è l’ottuso carnefice, non la vittima (…) Nessuno compie il movimento contrario, né tanto meno prova a fermare la spada. Ed è la stessa reazione, penso, che avrebbe chiunque davanti a un’esecuzione di mafia o a un attentato terroristico realizzati in pieno giorno in mezzo alla strada o in un luogo affollato. È la stessa reazione che abbiamo tutti, in genere, di fronte alla violenza (…) La violenza estrema atterrisce. Atterrisce la sua epifania priva di alternative. Al massimo si grida, si scappa, ma raramente si è pronti a intervenire (…) Guarda Matteo a terra, e anche lui sa perfettamente cosa sta per accadere (…) quella porzione di tela mi sembra un manifesto. Una riflessione incandescente sulla violenza del mondo, e sul rapporto che instaura con essa chi la osserva. C’è un dolore misto a commiserazione nel suo sguardo: un’infinita tristezza. A differenza degli altri spettatori Caravaggio non fugge, guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor di più il genio dell’arte, non arresteranno il massacro. Può solo provare pietà. Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo”.
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