Il vuoto da colmare dopo l’attentato alla libreria La pecora elettrica
A Roma ieri sono successe due cose importanti, e un’altra invece è mancata. La prima è l’attentato gravissimo alla libreria La pecora elettrica, che è un piccolo spazio indipendente, nato pochi anni fa nel quartiere Centocelle, non lontano dal Forte prenestino, cioè dal più importante centro sociale romano. In questi anni la libreria è stata gestita da due librai intelligenti e combattivi, affollata di persone, amata dal quartiere. La Pecora elettrica era stata già colpita il 25 aprile 2019 da un attentato incendiario. In una data evidentemente non casuale erano entrati di notte, avevano appiccato l’incendio con meticolosità in tre punti differenti in modo che le fiamme si propagassero in fretta e in tutto il locale, avevano rubato un computer, aperto la cassa anche se l’avevano trovata vuota e non avevano lasciato nessuna rivendicazione.
Dal 25 aprile al 6 novembre c’è stata una mobilitazione che è andata oltre Centocelle. In pochi mesi sono stati raccolti 50mila euro, necessari per ricominciare; la festa di riapertura era stata programmata per il 7 novembre, e sarebbe arrivato un fiume di persone. Ma nella notte tra il 5 e il 6 la libreria è stata incendiata di nuovo. Chi voleva distruggere la Pecora elettrica ha approfittato del buio pesto di via delle Palme – dove si trova la libreria e dove i lampioni sono spenti o rotti da mesi – per neutralizzare le telecamere, fracassare il massetto, divellere la saracinesca e incendiare tutto.
La mattina del 6 novembre le reazioni sono state simili a una balbuzie, e non poteva essere altrimenti. A vedere il locale devastato, con i libri nuovi carbonizzati, i macchinari appena comprati ancora fumanti che intossicavano l’aria con la diossina, veniva da piangere. I due proprietari erano annichiliti; si sono presentati a dargli solidarietà il presidente del municipio Giovanni Boccuzzi, il vicesindaco e assessore alla cultura al comune di Roma Luca Bergamo, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini. Anche loro non hanno potuto esprimere molto altro che lo sconcerto e la vicinanza, non hanno potuto annunciare promesse di nessuna sorta. Chi avrebbe il coraggio di riaprire dopo una violenza così potente e così mirata? Chi lo troverebbe dopo che qualche settimana fa la pinseria vicina, sempre su via delle Palme, ha subìto lo stesso trattamento: incendiata e distrutta, senza che le indagini abbiano ancora portato a un arresto o a una pista credibile?
Risposte insufficienti
Evocare un maggiore controllo del territorio, come spesso è stato fatto, pensando che la sicurezza delle città sia una mera questione di ordine pubblico, sarebbe una sconfitta dal punto di vista sia amministrativo sia politico. È quello che è successo a San Lorenzo dopo l’omicidio di Desirée Mariottini, sull’onda di una gara repressiva innescata dalle destre. Oggi il risultato è un quartiere semplicemente più deserto, con locali che chiudono, vittima di una gentrificazione speculativa, che espelle gli abitanti storici e gli studenti, e di un securitarismo che distrugge la vitalità di un quartiere e non fa nulla contro il racket o lo spaccio.
La matrice politica, quella di un attentato fascista che era stata ipotizzata per l’attentato del 25 aprile scorso, non è evidentemente più sufficiente a spiegare una brutalità così spudorata, che simbolicamente ricorda quella di una mafia che ambisce a controllare il territorio, a costo di uno scontro diretto con le istituzioni. Il rogo di ieri è una spettacolare dichiarazione di guerra, a cui – sembra ovvio – non basta rispondere con la solidarietà, l’indignazione, la speranza che le forze dell’ordine possano individuare i colpevoli. Anche parlare di attentato fascista o neofascista non ci aiuta a capire le cose né a reagire.
Il corteo
La seconda cosa importante che è accaduta il 6 novembre è stato il corteo che si è autoconvocato a piazza dei Mirti e che ha sfilato per le strade di Centocelle, dalle 19 in poi. C’era un oceano di persone, data l’ora, il luogo, il tempo della chiamata: almeno diecimila presenze, le uniche bandiere quelle dei collettivi antifascisti, come Azione antifascista Roma est che aveva creato l’evento in rete e che guidava la testa del corteo. Molti dei negozi e delle attività di Centocelle hanno chiuso il pomeriggio per sfilare; gli studenti che da ormai qualche anno riempiono i locali di quello che è di fatto un nuovo quartiere universitario e postuniversitario – da quando, per esempio, gli affitti a San Lorenzo prima e Pigneto poi sono diventati sproporzionati – erano in piazza, e insieme a loro le famiglie, gli abitanti, le facce del quartiere.
A prendere la parola durante il corteo sono stati soprattutto gli attivisti che in tanti posti a Roma salvaguardano gli spazi sociali: attaccati da un modello di capitalismo barbarico che pensa di trasformare la città in un grande centro commerciale diffuso, dalla retorica della sicurezza che militarizza lo spazio pubblico con vigilantes, telecamere e camionette, e dalla crisi economica che ha ridotto intere zone della capitale a luoghi che vivono di economie di sussistenza, tra cui una microcriminalità che sta diventando sempre meno micro.
Tra questi spazi ce ne sono molti minacciati anche oggi di sgombero: da Astra a Montesacro al Nuovo cinema palazzo a San Lorenzo, da Lucha y siesta a Spin Time Labs. Questi luoghi, occupati, autogestiti, realmente popolari, descritti spesso dalla stampa locale come covi di illegalità, sono invece – come lo era la Pecora elettrica (fa male parlarne al passato) – dei presìdi non solo di socialità ma di democrazia, viste le condizioni della città. L’attacco alla libreria richiama i due furti che ci sono stati nelle ultime settimane all’Angelo Mai, altro luogo bellissimo e sotto sgombero.
La grande comunità che ieri ha sfilato per Centocelle si riconosce, si chiama per nome, è solidale, compatta, sono anni che resiste, si mobilita ogni volta che c’è un pezzo di Roma da difendere: è una comunità politica reale perché vive, elabora, una pratica comune nelle lotte, si riconosce in maniera non ambigua o di facciata in un antifascismo militante, che vuol dire oggi: internazionalismo, femminismo, antirazzismo, ecologismo radicale.
E quando ieri il corteo è terminato davanti alla Pecora elettrica, attraversando il parco completamente buio di fronte, che oggi è una delle maggiori piazze di spaccio di Centocelle, e ha intonato Bella ciao, è stato un chiaro segno di quello che lega questa comunità alle storie della militanza antifascista dagli anni venti in poi, dalla tipografia di via Basento a Roma messa su da Leone Ginzburg alle biblioteche popolari create dai fratelli Rosselli a San Frediano a Firenze. Perché se è vero che è improbabile che quest’attentato abbia una matrice fascista, è altrettanto vero che la cultura antifascista ci ha insegnato anche molto altro oltre che a difendersi dalla violenza fascista.
L’assenza
C’è una cosa che ieri però è mancata. Quando il corteo ha finito di cantare Bella ciao, le persone sono rimaste in silenzio per mezz’ora, nessuno ha preso la parola, finché si sono disperse. Ci si è resi conto, in un modo o nell’altro, che mancavano le parole da dire e allo stesso tempo qualcuno che le pronunciasse.
Leader politici come Virginia Raggi e Nicola Zingaretti hanno espresso una sincera solidarietà sui social network, ma entrambi hanno aggiunto dei se. “Se è un atto doloso, sarebbe estremamente grave”, ha scritto la sindaca di Roma. “Se ce ne sarà bisogno, la regione darà una mano”, ha aggiunto il segretario del Pd.
Dall’altra parte dello spettro politico, Giorgia Meloni e Matteo Salvini tacciono. In altri casi, nella loro aggressiva battaglia per Roma, si sono limitati a parlare di una vaga esplosione di violenza, mettendo insieme gli spari in pieno giorno contro Fabrizio Piscitelli, conosciuto come “Diabolik”, l’omicidio di Desirée Mariottini, gli agguati a Luca Sacchi o a Manuel Bortuzzo. Niente fa pensare che rifletteranno su quello che è successo alla Pecora elettrica, ammesso che lo faranno, in maniera diversa.
Oltre le occasioni mancate
Ma al di là delle posizioni e dei posizionamenti dei politici, il silenzio davanti alla saracinesca chiusa e annerita della libreria dice una cosa: alla comunità di persone che si è data appuntamento per difendere quello spazio, spesso mancano due cose. Da una parte obiettivi politici sull’intera città che non siano solo di testimonianza e di resistenza, dall’altra una rappresentanza.
C’è una possibilità di fare egemonia sul mondo politico, nel momento in cui le identità sono plastiche se non liquide o gassose, ma ci si arresta un momento prima di farlo. E così si inanellano le occasioni mancate: c’è un’intera generazione – a Roma è ancora più visibile – che ha preferito non impegnarsi direttamente in politica, che si allerta quando c’è uno spazio da difendere, ma spesso è più latitante quando invece bisogna analizzare le trasformazioni di questa città o dare forma a organizzazioni, a nuovi strumenti di partecipazione, e nonostante abbia una cultura politica aggiornata, si ritrova magari a replicare retoriche e modelli clonati dagli anni settanta, quando esistevano partiti di massa, e polarità tra questi e i movimenti.
La stagione dei beni comuni che sembrava fortunatamente fiorita a Roma, non solo con l’esperienza del teatro Valle, non ha portato a modelli amministrativi diversi. I tentativi di trovare forme per coinvolgere quella cosa informe chiamata cittadinanza attiva nel governo della città si sono rivelati sempre più spesso forme di cooptazione solo simbolica.
Così in fondo quello che è più evidente davanti una libreria bruciata due volte in sei mesi è che le testimonianze, le retoriche, le solidarietà, i simboli sono fondamentali, ma non bastano più. Forse è giunto il momento, dopo aver riconosciuto tutte le debolezze delle amministrazioni di questi anni, di farsi carico di un passo ulteriore: affrontare questo plateale deficit di rappresentanza e di visione con una militanza franca, con un investimento personale che potrà far generare una nuova classe politica.