Cosa dice Tolo Tolo sull’Italia di oggi e di ieri
Christian Raimo. Ho visto il film di Checco Zalone mentre era già in corso un dibattito che aveva esondato i confini di quello che di solito nasce su un film. La ragione è semplice: non ci sono film, libri, spettacoli, serie tv visti da così tante persone. Il film precedente di Zalone, Quo vado, aveva incassato 65 milioni di euro, il che vuol dire che l’hanno visto più di otto milioni di spettatori. Tolo Tolo avrà un destino simile. Considerando la tv, i servizi di streaming eccetera, è probabile che entro il 2020 l’avrà visto un italiano su due. Quindi è giusto ragionarci come un fenomeno culturale oltre che come un’opera. Partirei da un giudizio complessivo: mi è sembrata un’operazione culturale rischiosa ma sostanzialmente riuscita e importante. E come film mi è piaciuto, anche molto, nonostante le varie sgangheratezze.
Igiaba Scego. Io ero andata a vederlo con preoccupazione, proprio per il dibattito che si era creato. Cosa avrei visto? Un film sovranista? Antirazzista? Un capolavoro? La vita è bella? Genio o cinepanettone? Commedia o tragedia? Soprattutto i miei amici/conoscenti afroitaliani/e si sono divisi molto. C’era chi diceva “Non parla di me, non ne faccio parte, l’Africa del film è stereotipata. Questo film è come l’antirazzismo italiano pieno di buone intenzioni, alla fine non ci siamo”; e invece altri erano sinceramente entusiasti perché “finalmente si può anche ridere, giocare, prendersi in giro. E facciamocela una risata. Basta con questo politicamente corretto”. Insomma non sapevo cosa mi sarei trovata davanti. Alla fine ho scoperto, con grande meraviglia, che Zalone (insieme a Paolo Virzì) ha fatto un film. Perché in tutto questo dibattito ci siamo persi di vista che questo è un film, e fa satira. Mi ha ricordato in parte Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? di Ettore Scola, con Nino Manfredi e Alberto Sordi. E sì, a tratti Tolo Tolo è sgangherato. Ma ci sono delle perle. Quel “Grazie Haftar” – la battuta che pronuncia quando in Libia scoppia una bomba che interrompe il bacio tra Idjaba, la ragazza che gli ha rubato il cuore, e il suo rivale in amore – entrerà nelle battute che userò con gli amici.
CR. Zalone ambisce chiaramente a riscrivere la narrazione su certi temi. Oggi in racconti del genere ci sono una serie di topoi, di cliché, che i mezzi di comunicazione non fanno altro che ripetere ossessivamente da anni, con un codice razzista che va dalla xenofobia al paternalismo, al colonialismo, al fascismo, al desiderio di sterminio: le barche, la disperazione, aiutiamoli a casa loro, l’invasione, la sostituzione etnica, i taxi del mare, ci vengono a rubare il lavoro… Zalone gioca con tutti questi cliché e li rovescia, spesso li riscrive, in un modo così plateale e potente che rischia ogni volta di essere didascalico, kitsch; ma è chiaro per me che il codice della comicità lo aiuta a non cadere in una retorica inefficace (qui Giansandro Merli lo dice efficacemente). Ma si intuisce un ulteriore riflesso, permesso da questo rovesciamento: la dimensione del comico ha la stessa funzione della categoria del migrante – la riduzione al corpo. Giorgio Agamben parla di “nuda vita”. E il personaggio di Checco Zalone giustappone, e contrappone, la riduzione al corpo del comico con la nuda vita del migrante. Checco è un personaggio come tutti i comici puri: ha fame, sete, sonno, deve andare in bagno, fare l’amore, ci tiene alla pelle. Un po’ Brighella, Wile E. Coyote, Paperino, Homer Simpson: molto cartoonesco. Accanto a lui ci può essere un conflitto internazionale, un documentarista interessato ai problemi del mondo, un contenzioso tra governi e ong, lui vuole mangiare, dormire… Non vale lo stesso per il migrante, costretto a rinunciare alla sua dimensione culturale e a pensarsi come nuda vita? Questa è per me l’evidenza che rende Tolo Tolo un film che nasconde il perturbante dietro a un meccanismo comico anche semplice. Anche la battuta della divisione dei migranti nei vari paesi europei fatta per chili di carne è perfetta.
IS. L’ambizione è anche quella di mettere a nudo un certo modo di essere italiani, di concepire la nazione. Una scena che mi ha molto colpito è quella in cui Checco Zalone sente dentro la voce del duce e a un tratto si mette in piedi nel camion in movimento pieno di migranti e diventa improvvisamente Mussolini. Lì arriva un dottore, interpretato da Mohamed Ba, che gli fa una diagnosi precisa: attacco di fascismo. “Me lo ha mischiato mio zio”, si giustifica Zalone, un fascismo che è “come la candida”. In questa piccola scena c’è in fondo un attacco duro alla mancata elaborazione di quello che è stato il fascismo in Italia. Ci dice che le sue scorie sono ancora lì e riemergono nei momenti di crisi, come la candida. Ho trovato in questa scena quello che dice Paola Tabet nell’introduzione di La pelle giusta, che parla di un ronzio razzista che in ogni momento può far partire questa macchina dell’odio. L’Italia se lo porta dietro non solo dalle leggi razziali del 1938, ma dal colonialismo. E poi per me è significativo che il dottore che diagnostica questo “attacco di fascismo” sia Mohamed Ba. Lui ha subìto davvero un attacco, alla fermata dell’autobus, nel maggio del 2009: un uomo dalla testa rasata gli si è avvicinato e ha detto “qui c’è qualcosa che non va” e gli ha piantato un coltello nell’addome. Poi gli ha dato una seconda coltellata. La gente intorno è fuggita. I soccorsi sono arrivati dopo un’ora. Ha rischiato di morire dissanguato. Secondo me, sarei curiosa di chiederglielo, hanno discusso molto di questa scena. Poi mi è piaciuto vedere Mohamed papa nella scena in cui viene ripresa (e direi rivoltata come un calzino) la canzone patriottica Italia di Mino Reitano, dando corpo alla più grossa paura degli italiani, ovvero diventare ne(g)ri: sai la sostituzione etnica, quella roba lì, ecco Zalone l’ha messa in scena. E mi ha fatto ridere vedere un gondoliere nero. Vorrei dire a Zalone e Virzì che un gondoliere nero è esistito davvero. Basta vedere il quadro di Carpaccio Il miracolo della croce a Rialto (o Guarigione dell’ossesso) dove al centro c’è un bel gondoliere nero di rosso vestito. L’Italia è una società plurale, ci sono persone di tutte le origini, ma la grande ossessione italiana rimane il colore nero, considerato ancora, ahinoi, l’alterità per eccellenza. Ecco Zalone (con Virzì) questo l’ha capito. Ha giocato su questo, anche con grandi ambiguità, ma il risultato direi in certi punti del film è proprio interessante.
CR. La questione nodale che il film riesce a cogliere è proprio questa: il tema esplorato non è tanto l’immigrazione ma il nazionalismo, cosa vuol dire essere italiani, sentirsi italiani eccetera. Negli ultimi anni l’Italia è dappertutto. Non so se hai presente quella pagina Facebook che si chiama Tricolori inutili, che mostra bandiere e tricolori dovunque. E questo discorso nazionalista di risulta è trasversale, da destra a sinistra, dal basso all’alto, dalle istituzioni ai bar. Il personaggio di Checco Zalone incarna anche nei suoi film precedenti, per esempio in Quo vado, l’italiano medio, l’italiano medio puro si potrebbe dire. Ma se in Quo vado faceva ridere il contrasto con la civiltà europea, i diritti civili contro il clientelismo più meschino, l’educazione nordica con la sguaiataggine paesana, qui l’attrito era meno facile da rendere comico, perché l’italiano medio in Africa è uno sfruttatore, un colonialista, non un semplice cafone. Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? è l’evidente matrice di Tolo Tolo, tanto che in certi momenti sembra un remake. Ed è interessante mettere a confronto i due film, perché in questi anni l’Africa come continente è cambiata moltissimo. In questo senso a me interessa soprattutto il personaggio di Oumar, quello interpretato da Souleymane Sylla: colto, problematico, riflessivo, “europeo”, traditore. Mi è sembrata questa la dichiarazione politica più forte, ancora di più della povera Idjaba che si rivela una guerrigliera. L’idea è che ci sia un conflitto permanente rimosso nella narrazione della relazione tra Europa e Africa, che invece quando emerge non può essere risolto soltanto con una forma di pacificazione paternalista.
IS. A proposito di Idjaba, è la prima volta nella mia vita che sento il mio nome in un film. Ho riso come una matta quando il giornalista francese, Alexandre Lemaitre, dà quella spiegazione creativa del nome, dicendo che in lingala significa energia della vita. Il mio non è un nome dell’Africa subsahariana ma somalo, quindi dell’Africa orientale, inoltre è un calco dall’arabo e non è diffuso per niente neppure nel mio paese di origine. Lui è un personaggio interessantissimo. Una presa in giro di alcuni giornalisti narcisi che si incontrano negli scenari di guerra e non solo. Una figura che ricorda un po’ gli esploratori-colonizzatori – infatti Lemaitre, interpretato da Alexis Michalik, nel film è in tenuta coloniale – e un po’ le pop star, sempre interessati ai loro primi piani. Mi ha ricordato anche un ottimo articolo di Laura Silvia Battaglia sulla serie tv Arabia. C’è questo aspetto orientalista colto appieno dal film. Da applausi. Però, in sé, il personaggio di Idjaba è il più debole. Un po’ come se avessero avuto paura di calcare la mano, il timore di precipitare nella visione della venere nera o della faccetta nera, e insomma di essere tacciati di sessismo/razzismo. Quindi l’ottima interpretazione dell’attrice, molto intensa, risulta un personaggio un po’ vuoto, incompleto, una guerrigliera un po’ alla Black Panther, stereotipata, che non mi ha convinto molto.
CR. Molti attori del film sono francesi e francofoni. E appunto notavo come manchi forse un riconoscimento per una scena artistica di afroitaliani. E magari questo film pone tra i vari temi anche questo: come può essere raccontata l’Italia dalla generazione degli afroitaliani. Tu ti sei posta questo problema per la narrativa, anche nella cura dell’antologia recente pubblicata da effequ, Future. Il domani raccontato dalle voci di oggi. Per il cinema chi sta facendo un lavoro simile?
IS. In realtà in questo film ci sono alcuni attori afroitaliani /afroitalofoni: Mohamed Ba, appunto, Ira Fronten e il bravissimo Maurizio Bousso (il ragazzo del trailer che è stato una vera e propria trappola per sovranisti, Immigrato). Sono persone che lavorano sodo e da tanto. Fanno teatro, fanno cinema. E molte maestranze afro (non solo attori e registi) in Italia si sono organizzati con gruppi, eventi, prese di posizione come quella del collettivo N nel 2018 al festival del cinema di Venezia, dove molti afrodiscendenti chiedevano più spazio e più dignità per il loro lavoro. Molto c’è da fare però, la strada è lunga e i produttori italiani sono ancora poco coraggiosi nel dare fiducia a registi, sceneggiatori, attori afrodiscendenti. Ma sono veramente tante le persone che hanno fatto e stanno facendo percorsi interessanti nel cinema: penso al veterano Jonis Bashir, a Ester Elisha, Tzeta Abraham, Amin Nour, Hedy Krissane. Invece volevo chiederti io una cosa. Che ne pensi dei due camei di Nicola di Bari e Nichi Vendola? Io che amo la musica degli anni sessanta ho rivisto con piacere Nicola di Bari, invece devo dire che ho riso un po’ amaro vedendo la scena di Nichi Vendola. Ha fatto un’autocaricatura molto giocosa, però mi sembrava anche la caricatura di una sinistra che poteva fare molto e non ha fatto nulla. Non so, a tratti il film Tolo Tolo mi è risuonato come lo specchio di un’infelicità italiana, soffocata da burocrazia e dove un sognatore, nel film Checco, non può raggiungere i suoi sogni.
CR. Non lo so, la parte del film in cui intervengono personaggi reali, che siano Vendola, Nicola Di Bari, ma anche Enrico Mentana con il suo telegiornale, mi convincono poco. Checco Zalone è un personaggio immaginario creato da Luca Medici. Ma si sta evolvendo, dopo questo film: meno Mr Magoo, più Totò. Ed è giusto che il personaggio del politico che fa carriera si chiami Luigi Gramegna (interpretato magistralmente da Gianni D’Addario) e non Luigi Di Maio. Il comico trasfigura e la trasfigurazione con Vendola o Di Bari è una parodia un po’ facile. A me piace quando Zalone usa il codice comico in modo più inventivo: il sarcasmo, l’umorismo, la trasfigurazione, il grottesco. La battuta che preferisco nel film è “Non chiedete cosa possa fare il mio paese per voi… Un cazzo, non può fare un cazzo!”, che è una tipica battuta da commedia all’italiana. Ed è proprio questa secondo me la scommessa più grande: una commedia all’italiana aggiornata ai nostri tempi. Vedremo in che direzione andrà il prossimo film.
IS. Sai quello che è davvero piaciuto a me di questo film? Il momento in cui Zalone si spoglia del suo privilegio, strappa il passaporto e diventa un viaggiatore senza diritti. Sa che è quell’oggetto a renderlo in fondo uno di (quasi) serie A. L’unica differenza tra lui e i migranti è in quel passaporto bordeaux. C’è qualcuno a cui è permesso di viaggiare in aereo coccolato e riverito, mentre altri devono superare deserti e trafficanti. È il peso del passaporto a fare la differenza. E lui lo strappa. Poi dopo vende i suoi vestiti firmati, salutando i vari Giorgio (Armani), Louis (Vitton), Miuccia (Prada). Resta nella sua nudità un po’ sfigata. Checco è in fondo un ingenuo e un disgraziato. Ed è questo a legare questo film alla commedia all’italiana storica. Mi viene sempre in mente Sordi, questa volta nel film di Dino Risi, Una vita difficile, quando dice ai turisti che “Cosa venite a fare qui? Non c’è niente da vedere, è tutto uno schifo… non visitate l’Italia! Statevene a casa vostra, che è meglio”. Sordi nel film ha sofferto molto, e mi pare che anche Checco Zalone viva lo stesso tormento. Nella sua storia non si ride sguaiatamente, c’è però un sorriso che ci riguarda molto da vicino, a prescindere dal colore della nostra pelle.