Il curriculum dello studente è l’ultima cosa di cui la scuola ha bisogno
Spesso accade che gli interventi politici per la scuola pubblica arrivino in momenti e modi poco propizi, anche quando nascono da un’ispirazione condivisibile. È il caso del progetto di tenere aperte le scuole d’estate per permettere a ragazze e ragazzi di recuperare studio e socialità: le segreterie degli istituti, sfinite dopo un anno durissimo, non riescono a farsi carico della parte amministrativa, ma nella maggioranza dei casi anche dirigenti e docenti hanno preferito non impegnarsi.
Ed è il caso anche del primo anno dell’ora settimanale di educazione civica: prevista dalla legge quando al ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) c’era Marco Bussetti, ma introdotta solo dalla ministra Azzolina, si è in molti casi aggiunta a un carico già fittissimo di ore, di programmi, di attività trasversali, senza coinvolgere la formazione degli insegnanti, senza un’indicazione precisa sulle finalità. Tutto questo mentre negli ultimi anni le ore di storia e geografia venivano tagliate sempre di più.
Poi ci sono alcune iniziative politiche per la scuola che sono sbagliate in tutto e per tutto, e che rischiano di fare danni. Per esempio, a poche settimane dall’esame di maturità il ministero ha rispolverato una vecchia idea: il curriculum dello studente. Prima di fare l’esame di stato ragazze e ragazzi, aiutati dagli insegnanti, dovranno mettere a punto un documento in cui inserire le competenze scolastiche ed extrascolastiche. Qui c’è un tutorial di cinque minuti che spiega come funzionerà.
L’origine
Da preparare prima dell’esame, il curriculum sarà poi allegato al diploma e dovrà contenere informazioni dettagliate sul “profilo dello studente”, come viene chiamato, cioè sulle attività formali e informali svolte durante gli studi, e annesse certificazioni. Qual è lo scopo? Ecco cosa dice il ministero.
- “Uno strumento con rilevante valore educativo e formativo”.
- “Importante per la presentazione alla commissione e lo svolgimento dell’esame di stato”.
- “Può costituire un valido supporto per l’orientamento degli studenti all’università e al mondo del lavoro”.
L’idea – e l’impostazione – del curriculum dello studente risale alla legge 107 del 2015, la cosiddetta Buona scuola. E qui occorre aprire una parentesi su questa legge allora molto dibattuta: dall’alternanza scuola-lavoro alla chiamata diretta del dirigente, dall’organico di potenziamento al bonus del merito per i docenti, tutto l’impianto della Buona scuola si è rivelato in questi anni clamorosamente sbagliato e fallimentare, classista e farraginoso. Le poche cose da salvare, come la riforma della selezione e della formazione dei docenti, sono state le uniche disattese.
Anche il curriculum dello studente non fa eccezione: si tratta di un mostro da un punto di vista pedagogico e normativo, come al solito mascherato da innovazione. Una piccola riforma talmente inutile, e pensata male, che non si riesce davvero a salvare nulla.
Critiche e difese
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari è stato uno dei primi a criticarla duramente, sostenendo che sia la cartina tornasole di una logica neoliberista delle politiche del ministro Patrizio Bianchi: “Il curriculum mette tra parentesi il diploma a cui è allegato: perché al mercato non basta il valore legale del titolo di studio, e nemmeno il voto. Il mercato vuole sapere cosa sta comprando. E così il ministero glielo dice: rendendo ben chiaro che la scuola deve servire non a formare cittadini, e prima persone umane, ma a piazzare capitale umano sul mercato del lavoro”.
Su Roars, un sito sempre attento alla politiche dell’istruzione, la disamina è più articolata (qui per esempio si mette in discussione l’analisi delle cosiddette character skills; qui ci si domanda cosa definiamo come “valore” in un percorso educativo; qui si mostra il rischio che il curriculum si riveli “un’accumulazione narcisistica”), e il giudizio è altrettanto netto: “La crescita delle attività e del tempo dedicati all’orientamento in uscita, nel triennio delle superiori, è stata continua negli ultimi anni: paradossalmente pari, come ben sanno i genitori, i docenti e in primo luogo gli studenti stessi, alla crescita del disorientamento dei beneficiari. Paradosso apparente: perché è evidente che riducendo e svalutando la scuola nella sua sostanza culturale si rende più difficile, nei ragazzi, la maturazione di quella ‘bussola interiore’ che, essa sola, permette a un individuo di orientarsi nella vita e nel mondo”.
Questo dibattito rivela un conflitto tra ideologie. Il sociologo Marco Pitzalis vede nel curriculum “l’apoteosi di una scuola borghese che non ha più vergogna di esserlo”. Mauro Boarelli sulla rivista Gli Asini parla di una vera e propria controriforma scolastica e scrive di “un nuovo vocabolario che sta plasmando il sistema educativo: utilitarismo, competizione, individualizzazione, impresa, competenze. L’idea centrale è che l’apprendimento non abbia alcun senso se svincolato dal raggiungimento di un fine materiale e immediato”.
L’istruzione è un processo singolare: non è funzionale al sistema produttivo
Mentre chi lo difende lo fa ripetendo un’ideologia ormai invalsa: quella per cui si possa considerare l’esperienza di vita come capitale umano. Marco Campione, capo della segreteria dei sottosegretari al Miur durante i governi Renzi e Gentiloni, scrive su Linkiesta un articolo insieme a Valentina Chindamo: “E invece stiamo al merito, ci chiediamo cosa ci sarebbe di così discriminante nel chiedere a uno studente di parlare di ciò che lo appassiona fuori dell’ambiente scolastico. Oppure della sua esperienza lavorativa come bagnina o cameriere durante l’estate, ma anche della sua esperienza nell’attivismo, nello scoutismo, nel volontariato”.
Il dirigente del Miur Damiano Previtali dice: “Se riuscissimo nel tempo a valorizzare nella scuola proprio quelle competenze che gli studenti con libera intraprendenza acquisiscono, e sappiamo bene che non dipendono dalle disponibilità economiche delle famiglie, bensì dalla sensibilità e dalle attitudini personali, diminuiremmo la dispersione scolastica e miglioreremmo il nostro paese”.
Pensare i percorsi formativi come processi di accumulazione di capitale umano è ormai talmente accettato che non riconosciamo la trama discutibile dell’impostazione ideologica. Tra gli anni sessanta e settanta alcuni esponenti della scuola di Chicago come Gary Becker e Jacob Mincer si occuparono anche di educazione, sostenendo che l’ingresso di lavoratori più istruiti all’interno delle aziende innalzasse la produttività, il che avrebbe contribuito a sua volta ad aumentare il prodotto interno lordo.
Questa prospettiva è diventata molto comune: in Italia qualcosa di simile la introdusse già l’imprenditore prestato al mondo della scuola Gino Martinoli (ricordato anche dal ministro Bianchi come un pioniere non compreso) che insisteva perché la scuola guardasse di più alle esigenze del mercato del lavoro.
La questione che si prova ad affrontare con il curriculum dello studente è quella dell’educational mismatching: troppi diplomati non immediatamente utilizzabili dalle aziende. È incredibile a dirsi, ma parliamo di un problema che il parlamento italiano discuteva alla fine dell’ottocento. Un testo fondamentale di Marzio Barbagli del 1974, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico italiano (Il Mulino), ne fa una storia paradigmatica e ne smonta le retoriche a una a una, ricordando che già un secolo fa si parlava di “spostati”, di proletari intellettuali che non trovavano lavoro.
Nel 1973 l’economista Kenneth Arrow escogitava un’altra funzione per la scuola, aggiungendola a quella di accumulare capitale umano. Arrow usava la parola “filtro”: “L’istruzione superiore serve come dispositivo di screening, in quanto individua persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro. La teoria dello screening o del filtro dell’istruzione superiore, come penso di chiamarla, è distinta dalla teoria del capitale umano che migliora la produttività, ma non è in totale contraddizione con essa”.
Dall’altra parte, l’istruzione è un processo singolare: non è funzionale al sistema produttivo, anzi può essere una “variabile capricciosamente indipendente”, come scrive lo storico Giuseppe Ricuperati nel saggio Storia della scuola in Italia, dall’Unità a oggi (La Scuola 2015). È ancora così: nel desiderio di mobilità sociale delle classi subalterne non c’è solo l’ambizione di emanciparsi economicamente, ma di avere più controllo, autonomia e creatività nel lavoro. E queste spinte entrano in aperto conflitto con il mercato del lavoro attuale, in cui le tendenze occupazionali evidenziano una domanda di lavoro sempre più generico, dequalificato e sottopagato. Come dire, il miglior curriculum dello studente sarebbe quello che contiene una messa in discussione del sistema di valutazione del curriculum dello studente.
Quando si sente parlare di “valorizzare” le competenze bisogna chiedersi a chi viene destinato questo valore, se la valutazione di queste competenze rispetti l’idea di uguaglianza sancita dalla costituzione. Se guardiamo a quello che succede fuori della scuola, se osserviamo i processi di formazione extrascolastica, è chiaro come emergano in modo molto forte le disuguaglianze: i contesti di provenienza degli studenti sono spesso radicalmente disuguali, così come le loro opportunità. Ma questi dubbi non sembrano nemmeno intaccare la sicurezza con cui il ministero dell’istruzione ha inserito il curriculum dello studente come documento obbligatorio per l’esame di stato.
È come se il Miur non tenesse conto dei tempi che stiamo vivendo, come se non li “vedesse”. La miopia o il disconoscimento più clamoroso è quello che riguarda l’educazione politica degli studenti, delle lotte di una generazione che negli ultimi anni è scesa in piazza molte volte contro il capitalismo predatorio, il patriarcato, il razzismo, e per denunciare la crisi climatica.
Fare sciopero per il clima e decidere di non entrare a scuola per un anno tutti i venerdì come Greta Thunberg non dovrebbe essere considerata una voce rilevante del curriculum?