A settant’anni dalla morte di Orwell, 71 adesso, tutti ristampano i suoi libri, ormai fuori diritti, e Garzanti per esempio manda in libreria sotto il titolo La neolingua della politica un volumetto composto da due suoi brevi saggi sul linguaggio con un’intelligente prefazione di Massimo Birattari (con prezzo adeguato all’esiguità del prodotto: 4,90 euro, 1,99 in ebook).
Si tratta di due saggi diversamente noti. Il primo, La politica e la lingua inglese, è un classico nella bibliografia del “parlare e scrivere chiaro”, e molto giustamente Birittari gli accosta nella sua prefazione il noto articolo di Italo Calvino sull’antilingua uscito sul Giorno nel febbraio 1965, perché in entrambi i casi si tratta di satire contro l’assurda lingua di plastica adoperata non dagli incolti ma da quanti, anche tra i colti, non sanno o non vogliono comunicare in maniera limpida il loro pensiero.
Come Calvino, Orwell se la prende con le frasi fatte, le metafore stantie, i giri di parole adoperati al posto delle parole chiare e distinte, i sostantivi astratti al posto dei verbi (“mediante una considerazione” anziché “considerando”). In più, rispetto a Calvino, c’è l’irritazione tipicamente orwelliana per le fumisterie degli intellettuali, e un elogio della brevità – e simmetricamente il biasimo dell’inutile effusione, delle lungaggini – che fa venire in mente le pagine di un coetaneo di Orwell, non a caso affezionato alla lingua inglese e alla cultura britannica, il Guido Calogero di Scuola sotto inchiesta, ma poi anche il comico americano George Carlin, che in un suo sketch di qualche anno fa commentava molto spiritosamente il modo in cui in epoche successive si è definito il trauma che affligge i combattenti sottoposti a eccessivo stress nervoso, da shell shock (prima guerra mondiale) a battle fatigue (seconda guerra mondiale) a operational exhaustion (Corea) a post-traumatic stress disorder (Vietnam): più la formula si allunga e si fa astratta meno dice la verità sull’esperienza patita dalla vittima. Gli americani, diceva Carlin, “hanno grossi problemi a sopportare la realtà”, onde le perifrasi gentili, gli eufemismi; ma non vale anche per i non americani?
Il secondo saggio del volume non è veramente un saggio bensì il breve scritto che conclude il romanzo 1984. Come si sa, nella distopia di 1984 gioca un ruolo significativo anche la violenza che il potere esercita sul linguaggio:
La neolingua era la lingua ufficiale dell’Oceania ed era stata messa a punto per rispondere alle esigenze ideologiche del Socing, o Socialismo inglese (…). Gli editoriali del Times erano redatti in neolingua, ma si trattava di un compito talmente arduo che solo gli specialisti potevano cimentarvisi.
Misurate sulla nostra esperienza odierna, tuttavia, queste pagine non fanno venire in mente l’idiozia di un potere totalitario che palesemente non c’è alle nostre latitudini, ma semmai un altro genere di idiozia, quella di un certo corrente puritanesimo. La neolingua orwelliana assegnava “un termine esatto e spesso molto sottile a ogni concetto che fosse opportuno esprimere per un membro del Partito, eliminando al tempo stesso tutti quelli che non lo fossero”. Questo, spiega Orwell, “si otteneva in parte coniando parole nuove, ma soprattutto eliminando tutti i termini sconvenienti e spogliando quelli che restavano di eventuali accezioni devianti e, ove possibile, di qualsiasi significato secondario”.
Creare una lingua, normarla, abolire le parole e perciò le idee reputate sconvenienti: è un programma che, più che all’arbitrio di un inesistente Grande Fratello, fa pensare alla vocazione al conformismo (e al suo risvolto politico, la censura) che alligna soprattutto nella conversazione in rete, un conformismo che come sappiamo fa presto a diventare violento, fanatico: se se ne vuole trovare una, è questa oggi la neolingua, questo l’ambiente comunicativo in cui, per citare sempre Orwell, è diventato “quasi impossibile esprimere opinioni non ortodosse”.
Leggere Orwell è sempre un piacere, qualsiasi cosa scriva, ma bisogna dire che, al di là dell’etichetta sotto la quale li si può iscrivere (“Pagine sul linguaggio”), i due saggi dicono cose molto diverse, e diversi sono anche per impegno e qualità. In breve, mi pare che La politica e la lingua inglese sia un prodotto dell’Orwell migliore, mentre il secondo è un prodotto dell’Orwell peggiore.
La fattoria degli animali e 1984 sono delle parabole; se cade il velo dell’allegoria, che è quello che giustifica e tiene in piedi l’utopia o la distopia, ciò che resta sul piano della lettera è il moralismo: nella distopia di 1984, scrive per esempio Orwell, “molte altre parole come onore, giustizia, moralità, internazionalismo, democrazia, scienza e religione avevano semplicemente cessato di esistere”. A malapena giustificate in appendice al romanzo, queste righe, astratte da quel contesto, hanno un insopportabile tono predicatorio.
Il fatto è che il nemico che Orwell s’inventa nel suo scritto sulla neolingua non è un nemico contro il quale abbia senso combattere oggi, per quanto possa solleticare il proprio narcisismo fingersi partigiani e scendere in campo contro le dittature senza neppure uscire dalla propria stanza. Almeno in occidente, per ora, non è della neolingua che dobbiamo avere paura. Di che cosa allora? Be’, proprio di quell’antilingua di cui Orwell si prende gioco nel primo saggio del volume: che non è un prodotto dei fascismi (i fascismi anzi parlano chiaro: stupidamente, ma chiaro) bensì, ahinoi, delle democrazie come la nostra, quelle in cui la pigrizia e una viltà scambiata spesso per equilibrio trascinano chi parla o scrive ad adoperare il linguaggio non per manifestare il proprio pensiero ma per occultarlo.
Sui titoli
Due osservazioni a margine. Nuove ristampe e nuove traduzioni di Orwell sono le benvenute, ma direi che sarebbe meglio, ristampando, conservare i titoli originali, senza improvvisarne di nuovi. Già qualche anno fa uscì una bella antologia di suoi scritti letterari intitolata Letteratura palestra di libertà: titolo che proprio non suona orwelliano, e immagino non lo sia (credo che per lui la migliore palestra di libertà fosse la vita, e del resto certo non avrebbe usato la parola palestra); e ora questo La neolingua della politica si prende una licenza anche più grande, spingendo sull’attualizzazione come l’altro titolo spingeva sulla retorica.
Non mi pare un bel modo di fare, anche perché non credo che ci sia bisogno di spingere: il lettore che cerca i libri di Orwell accoglierebbe con lo stesso favore anche titoli più sobri come Scritti sulla letteratura o Scritti sulla lingua. Si mette giustamente (anche nel caso in discussione) tanta cura nelle traduzioni, nella ricostruzione della storia dei testi, e poi s’inventano i titoli?
Anche perché il titolo inventato è di solito un titolo attualizzante, che mira cioè a esplicitare subito, dalla soglia del libro, quanto le parole dello scrittore illuminino questo o quel carattere della società contemporanea; ma nel caso di Orwell e delle sue fortunatissime, ormai addirittura usurate invenzioni (il Grande Fratello, il doublethink, il doublespeak, il newspeak), si avverte semmai la necessità contraria, quella cioè di una più esatta definizione del contesto nel quale ha operato, di una migliore storicizzazione: altrimenti, specie tra i lettori meno avvertiti, si scambia per un generico messaggio libertario quella che è anzitutto una precisa reazione allo stalinismo e al fascismo degli anni trenta e quaranta; altrimenti tutto diventa insipidamente “orwelliano”.
Titoli più sobri come Scritti sulla letteratura e Scritti sulla lingua – e vengo alla seconda osservazione – invoglierebbero forse anche a una scelta più ampia e originale. La politica e la lingua inglese era già disponibile in italiano, e si trova perfino, tradotto, in rete; e I princìpi della neolingua non meritava di essere riproposto come estratto di 1984. Forse si poteva ritradurre Propaganda and demotic speech (1944), che quanto a contenuto è perfettamente in linea con La politica e la lingua inglese, o pescare cose simili, e inedite in italiano, nei venti volumi dei Complete works.
Non c’è da moraleggiare sull’alluvione di nuove traduzioni orwelliane che sommergerà le librerie: se l’operazione rende e Orwell si guadagna nuovi lettori, ben venga l’alluvione; ma chiedere agli editori – specie a quelli più grandi – uno sforzo in più d’immaginazione e di studio nella confezione dei volumi non è chiedere troppo.
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