La vera posta in gioco nelle elezioni britanniche
Le elezioni britanniche non sono un evento particolarmente entusiasmante per un osservatore esterno. Non siamo tipi da molotov, raduni di massa, manifestazioni o qualunque cosa che possa essere scambiata per un segno di entusiasmo politico. Fino a un mese fa lo scrutinio che il 7 maggio opporrà il mellifluo conservatore David Cameron al goffo laburista Ed Miliband si profilava ancora meno interessante del solito. Con un governo che guida l’economia che ha la crescita più alta d’Europa e negli ultimi cinque anni ha creato più posti di lavoro di tutti i paesi dell’Unione messi insieme, e un avversario come Miliband, la cui popolarità supera di poco quella di un tedesco che tira un rigore contro l’Inghilterra ai mondiali di calcio, sembrava che Cameron dovesse vincere senza problemi.
E invece no. Cameron – che appartiene a una classe privilegiata e per questo sarà sempre esposto all’accusa di non capire i problemi della gente comune – ha dimostrato, come nel 2010, di non saper gestire una campagna elettorale. I messaggi del suo partito sono stati un misto di promesse agli elettori più ricchi e commenti sarcastici sugli avversari. Mentre Miliband – che se fosse eletto sarebbe il primo capo del governo britannico ebreo dopo Benjamin Disraeli nel 1880 (i suoi genitori riuscirono a sfuggire all’olocausto, ma non i suoi nonni) – si è rivelato meno maldestro di quanto ci si aspettava. Perciò, invece di mostrare Cameron saldamente in testa, gli ultimi sondaggi danno entrambi i candidati intorno al 34 per cento.
Non è solo il testa a testa tra i due principali partiti a rendere la gara più interessante, ma anche le prospettive dei partiti minori. Cosa insolita per un paese del Nordeuropa, tra questi non ci sono i Verdi: le loro proposte (reddito di cittadinanza per tutti, tagli alle forze armate, immigrazione incontrollata e consistente aumento della spesa pubblica) sono così radicali che hanno ottenuto solo l’appoggio di pochi irriducibili e di chi pensa di dimostrare così il proprio amore per gli animali.
Non è solo il testa a testa tra i due principali partiti a rendere la gara più interessante, ma anche le prospettive dei partiti minori
Il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), euroscettico e xenofobo, è stato il primo partito alle elezioni europee del 2014 e sembrava destinato ad avere un ruolo determinante anche in quelle del 7 maggio. Ma le sue proposte si stanno rivelando troppo forti per molti palati, e il suo indice di gradimento scende di giorno in giorno.
Il fenomeno più interessante è lo strabiliante successo dello Scottish national party (Snp), il cui obiettivo principale è l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Lo scorso settembre ha perso nettamente il referendum separatista e secondo il suo leader dell’epoca questo risultato aveva sistemato la questione almeno “per una generazione”.
Ma la sconfitta sembra aver galvanizzato l’Snp. Il numero degli iscritti si è quadruplicato, passando da 25mila a 104mila, il partito ha trovato una guida migliore in Nicola Sturgeon, la prima ministra scozzese che ha sostituito il discusso e un po’ ridicolo Alex Salmond e che spera di ottenere abbastanza voti da rimettere subito all’ordine del giorno la questione dell’indipendenza.
Per molti anni la Scozia è stata un feudo del Partito laburista. Alle elezioni del 2010, 41 dei 59 seggi scozzesi (circa un undicesimo del totale nazionale) sono andati ai laburisti. Il partito ha dato per scontati questi voti, ma da settimane i sondaggi indicano che l’Snp potrebbe strappare ai laburisti scozzesi ben 32 seggi.
Questo significherebbe che, anche se vincesse in Inghilterra e in Galles, il Partito laburista non potrebbe formare un governo senza l’appoggio dell’Snp, che chiederebbe in cambio un nuovo referendum. Quindi in gioco non c’è solo chi governerà il paese, ma l’integrità del paese stesso. Se aggiungete che in campagna elettorale Cameron ha promesso di indire un referendum sull’adesione del Regno Unito all’Unione europea, vi rendete conto che in queste elezioni non si deciderà semplicemente chi sarà il prossimo inquilino del numero 10 di Downing street.
La mia sensazione è che i conservatori se la caveranno meglio del previsto e l’Snp peggio. Ma vi avverto che i progressisti di città come me non hanno la più pallida idea di come voterà la gente. Prima che Margaret Thatcher e Silvio Berlusconi vincessero ero convinto che fossero ineleggibili. E ricordo che, qualche anno dopo che Ronald Reagan era diventato presidente, ero su un treno che attraversava gli Stati Uniti in compagnia di un giornalista molto simile a me. Non era mai stato più a ovest del Mississippi e, mentre attraversavamo il Missouri, il Kansas e il Colorado, mi disse: “Sai, non ho mai capito come abbia fatto Reagan a vincere”. E poi, guardando una delle tante cittadine di provincia dalle strade polverose, dove davanti alle misere casette c’erano fuoristrada grandi come case e antenne satellitari grandi come fuoristrada, ha aggiunto: “Ma ora lo capisco”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)