Il giornalismo d’inchiesta è la risposta migliore ai tweet di Trump
A sei mesi dall’inizio della presidenza Trump, penso che ormai possiamo cominciare a vedere un motivo ricorrente. Il presidente degli Stati Uniti non è – per il momento – in guerra con la Corea del Nord, la Russia, la Cina, l’Iran, Cuba, il Venezuela, la Turchia, l’Islanda o la brava gente dell’Emilia-Romagna, ma di sicuro è in guerra con i mezzi d’informazione.
Quasi ogni giorno dalla Casa Bianca o dall’iperattivo telefono di Trump arrivano dichiarazioni offensive e tweet. A proposito di una conduttrice televisiva ha detto che ha un “basso quoziente intellettivo” e, con una battuta ancora più pesante, che una volta l’ha vista “sanguinare dal lifting”.
Ha lanciato veementi attacchi contro il New York Times e il Washington Post, e ha definito i mezzi di informazione in generale “nemici del popolo”. E ultimamente ha pubblicato su Twitter un video dei tempi in cui pubblicizzava uno spettacolo di wrestling in cui la testa dell’uomo che stava picchiando era stata sostituita dal logo della Cnn, il canale televisivo che odia più di tutti.
Era uno scherzo, anche se poco divertente, ma i giornalisti statunitensi – che non sono certo famosi per il loro senso dell’umorismo – l’hanno definito un’incitazione alla violenza contro di loro, che potrebbe arrivare all’omicidio. Tutto questo ci fa tornare in mente le parole arroganti che ha pronunciato qualche anno fa a proposito dei giornalisti. “Non li ucciderei mai”, ha detto, che in un certo senso è un sollievo. Ma poi, nell’eventualità che qualcuno pensasse che fosse stato troppo tenero, ha aggiunto: “Ma li odio. E alcuni di loro sono veramente bugiardi e disgustosi”.
Lo shock che questo suscita tra gli americani, a parte i suoi sostenitori, è enorme. Non solo perché quasi tutti i presidenti del secolo scorso si sono fatti in quattro per corteggiare, o almeno per andare abbastanza d’accordo, con i mezzi d’informazione, ma anche perché i suoi attacchi violano uno dei princìpi non scritti della costituzione degli Stati Uniti. Questo principio, fino a poco fa, è stato che i politici devono prendere i mezzi d’informazione e i giornalisti per quello che si vantano di essere.
Piedistalli e bagni pubblici
Come i cittadini americani hanno il diritto di portare armi (che peraltro, quando la legge fu approvata nel 1791, significava i moschetti a pietra focaia che sparavano tre colpi al minuto, non le armi automatiche che sputano 45 raffiche contemporaneamente), i giornalisti si sono arrogati da tempo il diritto di essere messi su un piedistallo. Di conseguenza, se c’è un settore con un ego grande come il monte Rushmore è quello dei mezzi d’informazione americani.
In Europa, i giornalisti occupano una posizione molto diversa: per quanto riguarda il loro status sociale, direi che sono una via di mezzo tra gli inservienti dei bagni pubblici e quegli assicuratori che vi vendono una polizza della quale non avete veramente bisogno.
Come disse una volta a un amico il grande romanziere scozzese Walter Scott: “Il tuo rapporto con qualsiasi giornale sarebbe una vergogna e uno svilimento. Preferirei che tu vendessi gin ai poveri e li avvelenassi così”.
Siamo famosi per essere grandi bevitori, accusati di avere pessimo gusto nel vestire e, come disse una volta uno scrittore inglese, dotati “dell’astuzia di un ratto e di un minimo di abilità letteraria”: in altre parole, poco rispettabili, diagnosi che nel complesso potremmo anche accettare, anzi, della quale andare orgogliosi.
Trump ha scelto di diventare una caricatura di se stesso
Perciò, diversamente da quanto hanno fatto in molti, e pur appartenendo alla categoria che Trump sta attaccando, le sue affermazioni non mi sconvolgono. Ho idea che non condividiamo gli stessi valori. Lui è un imprenditore, non certo il tipo di persona che prova molta simpatia per i giornalisti, e altrettanta ne suscita.
Non è neanche il primo presidente degli Stati Uniti a disprezzare i mezzi d’informazione. Grover Cleveland, eletto per la prima volta nel 1884, dichiarò: “Non credo che ci sia mai stato un periodo in cui i giornali sono stati così menzogneri e meschini come oggi”. Herbert Hoover (1929-1933) si rifiutava di partecipare a qualsiasi conferenza stampa – “Non intendo essere interrogato come un ladro di polli…” – e il presidente più simile a Trump nel suo disprezzo dei mezzi d’informazione, Richard Nixon (1968-1973), diceva ai suoi assistenti: “La stampa è il nemico”.
Semplicemente, Trump se ne esce con questi commenti più spesso e in modo più volgare, senza contare che ha accesso a quel moderno megafono per incontinenti verbali che sono i social network. Sa il cielo come giudicheremmo oggi Theodore Roosevelt se avesse potuto sfogare il suo considerevole malumore in messaggi da 140 caratteri.
Non ho neanche molta simpatia per quelli che sono costantemente indignati dal comportamento di Trump. Nella fretta di far mostra delle loro virtù offendendosi per tutto quello che dice e che fa, non lo capiscono. Ha sempre vissuto nel mondo della finanza e delle proprietà immobiliari, dove conviene sempre essere aggressivi, attaccare l’altro prima di essere attaccato, e avere fiducia in se stessi a tal punto che ad altri comuni mortali verrebbe suggerita una lunga psicoterapia.
Secondo me, essendo un outsider della politica ha scelto di diventare, nelle sue dichiarazioni pubbliche e soprattutto sui social network, una caricatura di se stesso: prepotente, arrogante e quasi psicotico. In privato sarà anche uno che molesta le donne ma, da tutti gli altri punti di vista, immagino che sia meno palesemente disadattato. Invece di offendersi, i giornalisti farebbero meglio ad avviare con metodo una bella inchiesta. Dopotutto, nel caso di Woodward e Bernstein con il Watergate ha funzionato.
(Traduzione di Bruna Tortorella)