L’instancabile ricerca della verità di David Peace
Un rumore indimenticabile, e insopportabile, scandiva il sottofondo di Tokyo anno zero. Con quel romanzo l’autore britannico David Peace inaugurava una trilogia che ora Tokyo riconquistata completa (i volumi sono pubblicati in Italia dal Saggiatore nella traduzione di Marco Pensante). Ton-ton, ton-ton, ton-ton… era il frastuono esalato dai cantieri dove si ricostruiva una città, la capitale giapponese del secondo dopoguerra, in un paese sconfitto e controllato dalle forze d’occupazione statunitensi. Quel ton-ton adesso ritorna. Chi abbia già letto i primi due “capitoli” lo ritroverà. E ritroverà molti personaggi (detective americani, poliziotti, scrittori fuori di testa, ambigui editori, traduttori che sono in realtà spie), insieme al paesaggio storico e all’angoscia. Insieme al cattivo odore di un passato che non si cancella se non l’hai risolto. Peace, meraviglioso scrittore, ha completato il suo progetto letterario: rinnovare le potenzialità espressive del romanzo storico e del romanzo criminale nello stesso tempo.
Al centro di Tokyo riconquistata c’è la morte, avvenuta nel 1949, di Sadanori Shimoyama. Presidente delle ferrovie nazionali, in procinto di licenziare centomila lavoratori: il suo cadavere fu ritrovato sui binari. Il caso non fu mai risolto e incise sul destino politico del Giappone. Peace lo racconta in tre brani che attraversano la storia del paese (1949, 1964, 1988) e corrispondono a parti stilisticamente diverse, ma tutte colme dei registri a cui l’autore ci ha abituati. Ogni sezione del libro svela un frammento di verità mentre Peace, pagina dopo pagina, non smette di proporre la sua visione morale: i casi criminali con un rilievo pubblico rischiano di trasmettere una malattia collettiva, di generazione in generazione.
“Confesso che dopo avere finito Tokyo città occupata (il secondo volume, ndr) ero stanco di scrivere storie di morte”, mi spiega Peace dal Giappone, dove vive. “Molti aspetti – alcuni personali, altri no – hanno reso più difficile concludere Tokyo riconquistata”. Peace ammette di essere stato rallentato da una ricerca preparatoria “soverchiante”, perché la letteratura sul caso Shimoyama è vastissima. Per dare un’idea di cosa significhi questo episodio storico per i giapponesi, potremmo paragonarlo al delitto Matteotti o al sequestro di Aldo Moro. Mentre lavorava, e scriveva anche altri libri (Red or dead, Patient X), è morto il suo agente e “più caro amico”, William Miller, il che ha aggravato un momento di “fragilità creativa”. Sono passati dieci anni, insomma, e cinque versioni del romanzo, “tutte scartate”, precisa Peace. Ma ora il libro c’è.
La chiave
La trilogia di Tokyo immerge il lettore in un Giappone postbellico, ex alleato di regimi nazisti e fascisti, domato ma ricostruito su fondamenta marce, nell’impunità dei suoi crimini di guerra. La chiave scelta da Peace è quella di raccontare casi di cronaca nera effettivamente avvenuti. “Ho scelto le storie che mi sembravano più adatte a comprendere il periodo dell’occupazione statunitense”, spiega Peace. E la morte di Shimoyama è esemplare: “Nel 1949 l’occupazione aveva perso da tempo gli ideali ispirati al new deal ed era entrata nella fase della cosiddetta rotta inversa: impose un drastico giro di vite al movimento sindacale e alla sinistra giapponese, pretese sacrifici economici e licenziamenti di massa. Quel cadavere trovato sui binari spalancò la scena di un radicale conflitto politico. Il Giappone si divise tra chi riteneva che Shimoyama si fosse suicidato, chi parlava di omicidio, chi incolpò la sinistra e i sindacati, e chi la destra”.
David Peace descrive Shimoyama come una figura tragica e isolata: “La sua morte ha cambiato il corso della storia giapponese. Ha causato la fine del movimento sindacale come forza politica di trasformazione e ha arrestato l’ascesa del Partito comunista. Si può dire che la sinistra non si sia mai veramente ripresa da quegli eventi”. E resta un caso irrisolto. Peace ha studiato tutte le fonti disponibili. In Tokyo riconquistata ogni ipotesi viene messa in scena – omicidio, suicidio, omicidio camuffato da suicidio – ma dal romanzo, che si assume la responsabilità di dare una risposta, affiora lo scheletro di quella che in Italia definiremmo una “strategia della tensione”: scatenare la morte e poi far ricadere la colpa su una parte politica o sociale, in questo caso i sindacati, così da suscitare una reazione contro le sinistre.
Strategia della tensione: la formula convince l’autore britannico che, per inciso, rivela di ammirare profondamente Leonardo Sciascia. Lo scrittore siciliano, assieme a Dashiell Hammett e Jean-Patrick Manchette, appartiene a una “santissima trinità” di “giallisti” di sinistra che lo ispirano da sempre. “L’affaire Moro di Sciascia è un saggio fondamentale, ed è stato un testo chiave per me”, ammette Peace. “In Giappone strumentalizzarono la morte di Shimoyama – un omicidio, ne sono assolutamente convinto – per screditare la sinistra”. E il ruolo degli statunitensi? Molti sono convinti che parteciparono materialmente all’assassinio. La posizione di Peace, però, è più sfumata: “Alcune agenzie americane fornirono supporto ai gruppi nazionalisti giapponesi di estrema destra. Gruppi nati prima della guerra, che si erano macchiati di omicidi e attentati durante gli anni della ‘valle oscura’ – il periodo storico militarista che va dalla fine degli anni venti fino alla sconfitta nel 1945 – ma che continuarono ad agire anche dopo. Probabilmente gli statunitensi si limitarono ad agevolarli nell’omicidio di Shimoyama, per poi sfruttarlo a loro vantaggio”.
Lo stile
Questo il tema del romanzo. Quando si parla dei libri di Peace, però, bisogna affrontare la questione dello stile. Anche perché ogni volume della trilogia presenta innovazioni formali. Tokyo anno zero ha la lingua claustrofobica, ripetitiva e percussiva tipica di Peace. Tokyo città occupata vi aggiunge una struttura impressionante, ispirata all’opera dello scrittore Ryūnosuke Akutagawa. Tokyo riconquistata appare più “sereno” nell’esposizione (non certo nei temi), più classico nell’uso dei dialoghi, nell’intenzione di mostrare i personaggi attraverso quello che fanno e dicono. Sono tre libri diversi, le cui forme narrative nascono dalle esigenze che le singole storie pongono.
“In Tokyo riconquistata”, racconta Peace, “ho rivisitato diversi modelli di crime fiction. La prima sezione è un omaggio al noir statunitense di Hammett. La seconda attinge a due forze concorrenti all’interno del genere poliziesco giapponese: La mappa bruciata di Kōbō Abe (che a sua volta si ispira ai primi romanzi di Robbe-Grillet), e la giallistica più classica di Edogawa Rampo”.
In questa sezione affiorano anche “elementi del grande scrittore di gialli di sinistra Seichō Matsumoto”. Mentre la terza e ultima sezione si muove verso il romanzo di spionaggio: “È qualcosa di completamente originale nel mio lavoro, e spero che sia un sintomo di percorsi futuri”, chiarisce Peace.
Le fonti
Non è una novità di Tokyo riconquistata, invece, il rapporto accurato con le fonti: è un tratto tipico del modus operandi di Peace. In realtà questo dialogo tra documento e invenzione riguarda un numero significativo di autrici e autori che possiamo individuare in una generazione maturata a cavallo tra i due secoli. Tutti loro istruiti alla scuola di W.G. Sebald. Tutti loro impegnati nella creazione di un “nuovo romanzo storico” che da un lato mette a tema il novecento, dall’altro combina letteratura e storia delineando in modo trasparente cos’è fonte e cos’è invenzione, e infine sperimenta nuove strutture.
Peace appartiene a pieno titolo a questo scenario: “Dal 2011 ho cominciato a insegnare all’università di Tokyo. Uno dei miei primi corsi s’intitolava ‘Scrivere storia’ e comprendeva Sebald, tra gli altri. Quindi per molti anni mi sono occupato di come scriviamo la storia. Credo di avere raggiunto questo livello di riflessione abbastanza naturalmente dopo il ciclo Red riding quartet e GB84”.
Le domande che Peace si pone continuamente sono: “Come raccontare nel modo migliore le storie del nostro passato recente? La fiction è la forma più adatta? E quali sono le strutture che più di altre mettono in discussione la ‘verità ufficiale’ e riescono a illuminare ‘l’altra verità’?”.
“Verità” è una parola impegnativa. In fondo essere privi di una verità da rivelare è la ragione d’essere della letteratura. Il che non impedisce di cercarla, però. Questo ragionamento convoca un altro pilastro di Peace, il genere: si ha spesso l’impressione che l’autore lo adotti come passe-partout per raccontare, appunto, l’impossibilità di verità e giustizia. Come se la crime story fosse il mezzo letterario più congeniale a rappresentare l’ambiguità dei comportamenti umani.
Peace naturalmente ne è consapevole, e cita Manchette: “Il romanzo poliziesco è ‘la grande letteratura morale del nostro tempo’. Anzi, per essere più precisi, è la forma più adatta a esporre e condannare il male nel cuore del nostro sistema capitalista. Peccato che la maggior parte degli autori di crime fiction rifiuti tale opportunità, preferendo arricchirsi con fantasie sadiche e voyeuristiche”.
Certo, anche le pagine della trilogia sono intrise di violenza. Sono violenti tutti i personaggi, i gruppi sociali o professionali. Come se l’aggressività mostrata alla luce del sole da una nazione militarista fosse migrata in comportamenti “notturni”, nascosti e patologici. Mi chiedo se di tanta violenza inestirpabile ci sia ancora traccia nel Giappone di oggi. Ma Peace mi riporta al centro del problema, che per lui è un altro. Lo scrittore inglese non percepisce violenza nel Giappone odierno – “ce n’è meno che altrove” – ma la vede, il che è peggio, un po’ ovunque nel resto del mondo, e la considera “una logica conseguenza delle società capitaliste, aggravata dal fatto che il divario tra chi ha e chi non ha continua ad aumentare. ‘Cane mangia cane’ significa che ci mangiamo a vicenda. Siamo tutti cannibali”, conclude. Difficile non essere d’accordo.