Perché anche i giovani sani devono temere i rischi del covid
Nel partito repubblicano statunitense e tra i mezzi d’informazione conservatori circola una nuova filosofia sul covid-19. Osservandola da vicino ci si accorge che somiglia molto a quella che circolava tra loro all’inizio della pandemia: se i giovani si ammalano non è un problema così grave. Anzi, potrebbe addirittura essere un bene.
Scott Atlas, da poco nominato consulente scientifico della Casa Bianca e molto stimato dal presidente Donald Trump, sembra essere il più convinto sostenitore di questa teoria. Neuroradiologo e professore alla Hoover Institution, un centro studi conservatore dell’università di Stanford, Atlas non è esperto di epidemiologia o di malattie infettive. Ospite fisso del network di destra Fox News, sembra che le sue credenziali siano più televisive che scientifiche.
“Non importa se le persone giovani e sane vengono infettate”, ha dichiarato Atlas in un’intervista concessa a luglio a un’emittente di San Diego. “Non so quante volte dobbiamo ripeterlo. Queste persone presentano un rischio vicino allo zero. Quando ad ammalarsi sono i giovani sani è una buona notizia”.
Al momento, secondo i dati raccolti dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), la principale autorità sanitaria del paese, il covid-19 ha causato la morte di meno bambini e adolescenti rispetto all’influenza in un anno normale (il tasso di mortalità del nuovo coronavirus è molto più alto dell’influenza, ma la chiusura delle scuole e i lockdown hanno ridotto l’esposizione degli adolescenti a tutte le malattie infettive). In base alle stime più accurate del rapporto tra contagi e decessi, le possibilità che un venticinquenne contagiato dal covid-19 muoia sono circa 250 volte inferiori a quelle di un ottantacinquenne. Tra le persone contagiate sotto i trentacinque anni ne muore solo una su mille. Questi dati potrebbero dare l’impressione che, come sostiene Atlas, “non è un problema se le persone giovani e sane si contagiano”.
Invece è un problema, e anche serio. Ecco perché.
Combinazioni pericolose
Molti giovani affrontano la pandemia facendosi due domande legate tra loro: quale probabilità ho di prendere il virus? E se lo prendessi, sarebbe davvero così grave?
Ho concentrato gran parte dei miei articoli sulla prima domanda. Provo a riassumerli in poche righe: le persone corrono un rischio maggiore quando vivono in comunità dove il virus è molto diffuso e quando trascorrono molte ore in spazi chiusi e poco ventilati, a stretto contatto con individui che parlano o espellono gocce di saliva, e il rischio aumenta quando le persone non indossano la mascherina. Consigliare cosa fare per evitare il contagio è facile, perché questi fattori di rischio sono scontati e valgono per tutti.
La domanda “sarebbe davvero così grave?” invece è più difficile da affrontare, perché il decorso della malattia varia molto da un paziente all’altro. Per avere una risposta universale bisognerebbe partire dall’osservazione che “morte” non è sinonimo di “rischio”.
La malattia, infatti, comporta una serie di conseguenze per la salute che sono molto gravi pur non essendo immediatamente fatali. A volte il sars-cov-2 innesca una reazione sproporzionata del sistema immunitario del paziente, danneggiando gli organi interni. Diversi studi condotti su soggetti asintomatici hanno rivelato che più della metà presentava anomalie polmonari. Una ricerca pubblicata a marzo del 2020 sul Journal of the American Heart Association ha rilevato che tra il 7 e il 20 per cento degli ammalati aveva problemi cardiaci associati al covid-19.
Come ha spiegato il giornalista Ed Young, molti malati di covid-19 sviluppano una lunga malattia, che combina vari sintomi tra cui spossatezza cronica, fiato corto, febbri intense, disturbi gastrointestinali, perdita dell’olfatto, allucinazioni, perdita della memoria a breve termine, vene varicose, comparsa di lividi, problemi ginecologici e battito cardiaco irregolare. Secondo il neuroscienziato David Putrino, i pazienti cronici di solito sono piuttosto giovani (età media 44 anni), precedentemente sani e spesso sono donne.
Non sappiamo con precisione quanti siano i “malati duraturi”, ma possiamo azzardare una stima basandoci sulle conclusioni di diversi studi.
La tesi sull’utilità dell’immunità di gregge si basa su due presupposti quantomeno dubbi
Secondo uno studio pubblicato a luglio su Science, l’1,2 per cento dei trentenni malati di covid viene ricoverato in ospedale. Una volta che la malattia è progredita fino al punto da rendere necessario il ricovero, aumenta il rischio di disturbi cronici. Una ricerca condotta in Italia ha rilevato che il 90 per cento dei pazienti ricoverati continua a manifestare sintomi dopo due mesi. Uno studio britannico ha riscontrato un rischio simile di disturbi a lungo termine.
Ora facciamo un calcolo matematico: moltiplicando il tasso di ricoveri relativo agli uomini sulla trentina (circa l’1,2 per cento) per il tasso di disturbi cronici dei pazienti ricoverati (quasi il 90 per cento), si ottiene circa l’1 per cento. Questo significa che un trentenne ha una possibilità su cento di sviluppare disturbi a lungo termine dopo essere stato infettato dal sars-cov-2. Per avere un termine di paragone, secondo lo stesso studio pubblicato su Science, il tasso di mortalità relativo agli uomini di sessant’anni è dello 0,7 per cento.
Molti di noi tendono a pensare che in questa pandemia i giovani siano al sicuro, mentre gli anziani sono in grave pericolo. Eppure, secondo questa ricerca, se un uomo sulla trentina e uno sulla sessantina contraggono il virus, è più probabile che il primo sviluppi disturbi duraturi piuttosto che il secondo muoia (il calcolo precedente, tra l’altro, non comprende tutti i malati cronici che non sono ricoverati).
Quello che non sappiamo
I dati raccolti sono preoccupanti, ma impallidiscono davanti a ciò che ancora non possiamo conoscere: le implicazioni del virus a lungo termine (cioè nell’arco di decenni) sul corpo delle persone contagiate. “Sappiamo che l’epatite C favorisce il cancro al fegato. Sappiamo che il virus del papilloma aumenta il rischio di cancro al collo dell’utero. Sappiamo che l’hiv favorisce alcuni tipi di tumore”, ha dichiarato Howard Forman, professore di politica sanitaria di Yale, in un’intervista all’Atlantic. “Non sappiamo se tra dieci anni le persone infettate dal sars-cov-2 presenteranno un rischio elevato di linfoma”.
Ma allora perché Scott Atlas, la Casa Bianca e altre persone cercano di sminuire i rischi per i giovani? Forse perché stanno cercando di convincere gli statunitensi che il contagio di un alto numero di ventenni avvicinerà il paese all’obiettivo dell’immunità di gregge, cioè il punto in cui una malattia come il covid-19 non può più provocare un’epidemia perché una parte sufficiente della popolazione ha sviluppato un’immunità. Atlas sostiene che se davvero l’immunità di gregge è inevitabile, tanto vale affondare il piede sull’acceleratore.
Il problema è che la tesi sull’utilità dell’immunità di gregge si basa su due presupposti quantomeno dubbi. Il primo è che la malattia non sia pericolosa per le persone che sopravvivono al virus. Sappiamo che non è così.
“Se si punta all’immunità di gregge bisogna mettere in conto un enorme numero di ricoveri e il fatto che buona parte delle persone ospedalizzate manifesterà disturbi per mesi”, sottolinea Marm Kilpatrick, ricercatore di infettivologia dell’università della California a Santa Cruz. “I sintomi durano per tre mesi? Sei mesi? Tre anni? Nessuno può dirlo. In ogni caso non vorrei mai che il piano per la pandemia fosse ‘facciamo ammalare per tutta la vita migliaia di ragazzi’. Non vorrei mai dover dire alle persone fra i trenta e i cinquant’anni che li abbiamo esposti al rischio di disturbi cardiaci e insufficienze d’organo croniche”.
Il secondo presupposto, altrettanto discutibile, è che sia semplice distinguere tra gruppi ad alto rischio e gruppi e basso rischio.
“Il modo più semplicistico per proteggere le persone vulnerabili è quello di dividere la popolazione per fasce d’età. Ma non si può fissare una soglia arbitraria e dire ‘proteggiamo tutte le persone con meno di 65 anni’, perché non succede niente di magico superati i 65 anni”, spiega Andrew Levin, economista all’università di Dartmouth. “In media un individuo di 64 anni e nove mesi presenta gli stessi rischi sanitari di uno di 65 anni. È difficile dividere la popolazione in una fascia d’età sicura e in una non sicura”.
Inoltre bisogna considerare che nella nostra società non esiste una divisione fisica tra persone di età diverse. I ristoranti e i negozi servono sia i giovani sia gli anziani, ed esistono decine di milioni di famiglie in cui convivono varie generazioni. La prova delle interazioni costanti tra giovani e anziani emerge dagli ultimi dati sui decessi per covid-19 negli Stati Uniti, con un aumento nel sud che è partito dai giovani per poi allargarsi ai più anziani, che hanno rappresentato la maggior parte dei decessi.
“Presumiamo di sapere come proteggere gli anziani, ma in questo campo non ci sono state innovazioni importanti”, sottolinea Natalie Dean, docente di biostatistica dell’Università della Florida. “Dicono che dovremmo impegnarci di più per tutelare gli anziani. Cosa significa rispetto a quello che già stiamo facendo? Non riesco a capirlo”.
L’immunità di gregge è un piano impraticabile, perché si basa sulla falsa premessa che sia possibile proteggere gli anziani e perché incoraggia i giovani a mettere a repentaglio la loro salute sul lungo periodo. La scelta, alla fine, è vostra. Potete dare ascolto agli scienziati, oppure potete giocarvi la salute.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul sito del mensile statunitense The Atlantic.