Non bisogna – si è detto di recente – usare l’etichetta di fascismo a vanvera. È una giusta ammonizione. Sono forse in atto regimi autoritari? No. Di Maio è Mussolini, Salvini è Hitler? Macché. Trump o Bolsonaro, tanto per guardare più in là, sono dittatori? Niente affatto, sono stati eletti democraticamente. Ma allora perché si continua a gridare al fascismo? È un tic verbale dei vecchi ruderi del secolo scorso e dei loro nipotini? È un effetto delle narrazioni letterario-cinematografico-televisive che ricorrono ormai da tempo a quella fase storica come a uno sfondo per vicende romanzesche tipo cappa e spada, far west, star wars? Mah.

Più probabilmente da Berlusconi in poi – limitandoci all’Italia – è diventato sempre più visibile che il quadro generale dentro cui la democrazia aveva funzionato in fase di guerra fredda è ormai logoro. Più probabilmente il paradiso terrestre capitalistico si sta impantanando tra nuove macchine portentose e vecchie congeniali brutture.

Più probabilmente, tra una crisi e l’altra, troppa gente si muove, s’imbarca, marcia, e bisogna convincerla a stare al posto suo in disciplinata attesa delle briciole. Di conseguenza non è il fascismo che torna e nemmeno il nazismo, ma piuttosto i loro ingredienti di base. E nel riconoscerli chiamiamo provvisoriamente con vecchie parole una eventuale torta avvelenata tutta da nominare.

Questa rubrica è uscita il 9 novembre 2018 nel numero 1281 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero| Abbonati

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