Domenica 4 dicembre i cittadini italiani saranno chiamati a votare pro o contro la riforma costituzionale. De facto questo quesito si è trasformato in gran parte in un voto sul governo di Matteo Renzi. Ma occorre interrogarsi sul significato del no al di là della personalizzazione dello scrutinio.
Ci sono motivi legittimi e rispettabili nel respingere il testo (alcuni cittadini desiderano per esempio poter continuare a designare direttamente i loro rappresentanti al senato, anche se in tanti paesi, come la Francia, non è così) ma davanti alla prospettiva di avere – grazie a questa riforma e in linea di principio – dei governi più stabili, tali motivi potrebbero apparire secondari. A questo punto, considerando gli ultimi sondaggi che davano il no in testa, occorre interrogarsi: in un paese come l’Italia che ha avuto 41 capi di governo in 70 anni (il Regno Unito ne ha avuti 15, la Germania otto) non sarà che in fondo una buona parte dei cittadini non vuole un governo stabile? Non sarà che l’Italia preferisce, nel bene e nel male, l’instabilità cronica?
Questa domanda ha evidentemente a che fare con la storia italiana, con un’unità tardiva, con l’Italia dei mille comuni, con l’esperienza criminale del potere forte durante il fascismo, con due grandi partiti, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che in parte guardavano l’uno oltre Tevere e l’altro oltre la cortina di ferro. Più genericamente, si può percepire una diffidenza verso lo stato centrale, le leggi che calano da Roma.
Il costo dell’ingovernabilità
Da sempre, l’Italia si è contraddistinta per una grande distanza tra il paese legale e il paese reale. A tal punto che se la penisola è spesso considerata come un laboratorio politico (dal fascismo all’eurocomunismo alla Lega fino al fenomeno Berlusconi) è anche perché il paese reale è stato capace, nella sua distanza, di assorbire lo shock delle esperienze politiche successive. Con una provocazione, Mussolini diceva che “governare gli italiani non è impossibile, è inutile”. Con terribile ferocia, il duce ha invece cercato di sottometterli. Ed è per questo che tanti italiani temono ancora, settant’anni dopo il fascismo, il ritorno di un governo forte. Meglio i contropoteri paralizzanti – di conseguenza – che un esecutivo efficace che potrebbe diventare troppo forte. Il problema è che l’ingovernabilità ha un costo.
Cioè il costo della non decisione, della resistenza delle amministrazioni che vedono tranquillamente passare i ministri, dello strapotere delle comunità locali – a volte quello dei clan criminali – del menefreghismo di alcuni cittadini. Tanto – si pensa – il governo, qualsiasi sia la sua volontà, cade a breve… Ricordo la storia di un commerciante che all’arrivo al governo di Mario Monti, nel 2011, e al suo annuncio di una crociata contro gli evasori aveva rimesso la sua automobile di lusso in garage e l’aveva coperta con un telo: “La ritirerò fuori tra alcuni mesi, quando Monti sarà caduto”. Questo è uno dei prezzi dell’instabilità governativa. Fino a pochi anni fa questo equilibrio, cioè un governo centrale debole e un paese reale lontano, ha retto. Anche perché esisteva una società civile molto attiva, solida, radicata sul territorio.
Come affrontare la questione dei migranti, dei cambiamenti climatici, della finanza internazionale con governi che sono provvisori già quando entrano in carica?
Il problema oggi è che tanti di questi corpi intermedi (associazioni, sindacati, partiti eccetera) sono in grave crisi e non riescono più a fare rete di protezione. E proprio in un momento in cui le sfide diventano sempre più grandi, superano i confini nazionali e richiedono visioni e azioni di lungo termine.
Come affrontare la questione dei migranti, quella dei cambiamenti climatici, della regolamentazione della finanza internazionale con governi che sono provvisori già quando entrano in carica? È vero che queste sfide non possono essere affrontate solo al livello italiano e che debbono passare, per forza, attraverso l’Europa. Ma finché non ci sarà una vera Europa democratica e federale, è necessario che il paese abbia un rappresentante stabile e dunque più forte al tavolo del Consiglio europeo.
Che peso può avere un presidente del consiglio italiano davanti ad Angela Merkel che ne ha già visti passare cinque e forse ne vedrà un sesto dopo il 4 dicembre? Si dirà che la stabilità non è tutto. Conta anche la politica adottata. Verissimo, ma quali riforme profonde, decisive, coraggiose, efficaci – perché accettate nella durata dai cittadini – potrà mai fare adottare un capo del governo di buona volontà (alcuni si spingerebbero a dire di sinistra) se sa che la sua speranza di vita supererà, in media, appena l’anno e mezzo?
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