Le dosi del vaccino sono scarse. Chi salvare per primo? È questa la domanda sottesa alle discussioni sul piano vaccinale in Italia, mentre la fine della pandemia – e dunque la causa di una delle più feroci crisi economiche dell’ultimo secolo – sembra finalmente all’orizzonte. Eppure, alla fine come all’inizio di questa vicenda, c’è il timore che a fare le spese delle difficoltà siano ancora una volta le persone anziane, immunodepresse e disabili, insomma le più fragili.
In Italia la pandemia ha messo in risalto le disuguaglianze della società. Reduce da anni di austerità e privatizzazioni, il sistema sanitario ci è arrivato già allo stremo, complici i tagli che hanno ridotto il suo finanziamento di circa 37 miliardi nel decennio 2010-2019.
Negli ultimi dodici mesi i governi hanno introdotto forti restrizioni alla libertà personale per arginare la crescita dei contagi e prevenire il sovraccarico degli ospedali. Nonostante questo, le restrizioni non sono riuscite a evitare più di centomila morti in Italia e quasi tre milioni nel mondo, e hanno finito per pesare sui più fragili, gli anziani, i disabili e i migranti: le stesse categorie che ora, in Italia, sono tra le più colpite, a tre mesi dall’inizio della campagna di vaccinazione.
Criteri
Tutti hanno diritto a essere vaccinati il prima possibile, ma in un contesto dominato dalla scarsità delle forniture, è indispensabile capire come bilanciare le esigenze di tutela di tutte le fasce della popolazione. All’estero, questo dibattito divisivo è riuscito, almeno in parte, a riconciliare i bisogni antagonisti di fasce diverse della popolazione, mettendo al centro l’interesse collettivo. Negli Stati Uniti la priorità nella vaccinazione ha posto al centro gli operatori sanitari e sociosanitari, gli ospiti delle residenze per anziani e le persone con più di 75 anni. Nel Regno Unito si è operato rigorosamente sulla base dell’età anagrafica, dopo aver giustamente vaccinato i residenti delle case per anziani, gli operatori sanitari e sociosanitari, e le persone vulnerabili.
Nei due paesi la scelta di procedere secondo un criterio che non prevede alcuna deroga a quello dell’età anagrafica, a parte le eccezioni elencate, dipende da una ragione precisa. Le fasce anagrafiche citate sono quelle più a rischio, e quindi vaccinarle per prime tutela non solo loro ma anche il resto della popolazione, perché svuota gli ospedali e immunizza le persone che hanno bisogno di più cure e che occupano il 95 per cento delle terapie intensive.
È tragico, alla luce di questi dati, osservare come, mentre i decessi e le ospedalizzazioni colpiscono soprattutto chi ha più di settant’anni, il vaccino in Italia sia stato somministrato in modo prevalente alle persone al di sotto di questa fascia d’età. Secondo i dati del governo, le dosi somministrate alle persone con più di settant’anni sono circa tre milioni, mentre quelle alle persone con età inferiore sono circa 4,8 milioni. Di fatto, al momento la fascia d’età compresa tra i 70 e i 79 anni è la meno vaccinata in assoluto; superata, per numero di vaccinazioni, addirittura dai ventenni.
Come siamo arrivati fin qui?
Per comprendere le cause di questa situazione bisogna ripercorrere le varie fasi della campagna vaccinale, a partire dalla circolare dell’8 febbraio 2021 con cui il ministro della sanità Roberto Speranza consentiva di creare un binario di vaccinazione parallelo per gli insegnanti, per le forze dell’ordine, per gli accademici e per gli appartenenti ad “altri servizi essenziali”. Il provvedimento nasceva alla luce del fatto che il vaccino AstraZeneca in quel momento era riservato agli under 55, e quindi non si creava concorrenza tra fasce d’età. Tuttavia, a un certo punto il limite d’età è stato eliminato, ma il binario parallelo no. Intanto, la definizione di “altri servizi essenziali” era interpretata talvolta in modo creativo dalle regioni, consentendo la fuga in avanti di alcune categorie a scapito d’altre.
Le regioni hanno ricevuto “lettere da tutti i presidenti degli ordini: commercialisti, avvocati, giornalisti, notai, erano tutti essenziali”, scrive Nello Trocchia su Domani, mentre nessuno sa esattamente quante persone in ciascuna categoria siano state vaccinate, né quale criterio sia stato seguito da ciascuna regione. Secondo Nino Cartabellotta della fondazione Gimbe, coloro che hanno ricevuto il vaccino senza averne diritto sono circa il 16 per cento del totale, più di un milione di somministrazioni. Una cifra che mette sconforto, se pensiamo alla scarsità delle fiale.
Purtroppo, questa situazione non è stata risolta nel piano del nuovo commissario straordinario per l’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, nonostante ora si sia deciso di dare un carattere di priorità ai soggetti fragili esclusi dal piano precedente, come i disabili, i pazienti oncologici, i caregiver. Tuttavia, la scelta di accentrare la governance al livello nazionale e di delegarne l’esecuzione alle regioni ha lasciato inalterata la frammentazione esistente, e ha reso sistemico il rimpallo delle responsabilità tra stato ed enti locali, alimentando un sistema iniquo e farraginoso.
Gli effetti della frammentazione
In questa fase, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti che le regioni stanno andando ognuna per conto suo, seguendo ritmi e priorità differenti, molto spesso a discapito dei più fragili. I dati della fondazione Gimbe dicono che in alcune regioni, nel cuore della terza ondata, la vaccinazione tra le persone più fragili e quelle con più di ottant’anni è un vero e proprio fallimento. Succede in Lombardia, in Toscana, in Campania, in Sardegna, in Calabria, in Puglia e in Abruzzo, per esempio.
Su scala nazionale le cose non vanno meglio perché, come spiega Cartabellotta, il numero complessivo degli immunizzati è ancora troppo esiguo nella fascia d’età più colpita, cosa che non produce effetti tangibili sulla riduzione delle ospedalizzazioni e dei decessi.
Secondo il ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa, aver vaccinato così poche persone con più di settant’anni fa sì che la curva dei decessi continui a salire. Stando ai dati dell’Ispi, se l’Italia avesse vaccinato la popolazione più a rischio oggi la letalità si sarebbe abbattuta del 54 per cento, mentre con numeri così esigui la diminuzione è del 21 per cento. Purtroppo, questa differenza del 33 per cento si traduce in migliaia di morti che potevano essere evitate, in particolare tra i più fragili.
Disuguaglianze in fabbrica
In questo sistema frammentato, farraginoso e difficile da monitorare, va aggiunto un ulteriore elemento di complessità. Il 19 marzo Confindustria ha terminato la mappatura delle imprese pronte a mettere a disposizione i loro siti per collaborare alla campagna vaccinale. L’iniziativa, chiamata “Fabbriche di comunità”, consentirebbe, secondo le dichiarazioni del presidente Carlo Bonomi, di vaccinare in azienda circa dodici milioni di persone.
Nel dibattito pubblico, il progetto è presentato come un tentativo di aumentare la disponibilità di siti dove vaccinare le persone e di accelerare la campagna. Anche in questo caso, tuttavia, la realtà che sembra profilarsi è più complessa. Anzitutto per il fatto che, ancora una volta, ogni regione fa a modo suo.
In base all’accordo che la regione Lombardia ha con Confindustria e Confapi le aziende associate con loro potranno vaccinare i dipendenti tramite i medici aziendali. Ma a partire da quando? Nella sua presentazione l’assessora al welfare Letizia Moratti ha detto che si comincerà solo dopo la vaccinazione dei più fragili e di chi ha più di ottant’anni, e quando sarà possibile aumentare la capacità vaccinale.
Tuttavia, in una situazione di scarsità di forniture il timore è che la creazione di un binario parallelo nelle aziende, in deroga al principio dell’età, possa produrre nuovi ritardi e nuove diseguaglianze. I più giovani potrebbero essere vaccinati prima dei più anziani, magari lasciando ulteriormente indietro la fascia tra i 70 e i 79 anni. Si potrebbe dare la priorità ai lavoratori dipendenti invece che a quelli precari, alle grandi aziende invece che alle piccole, a chi ha un impiego rispetto a chi è disoccupato.
Secondo i sindacati l’accordo “rischia di costituire un profilo avulso e indebito di gestione della priorità di vaccinazione”, in un contesto già provato dai ritardi e dai fallimenti della campagna vaccinale. Ma il problema non riguarda solo la Lombardia. Il Piemonte, il Friuli Venezia-Giulia e il Veneto hanno definito protocolli simili con le aziende, mentre altre iniziative del genere stanno nascendo in Sicilia, in Puglia, in Trentino e nelle Marche.
È chiaro che questa frammentazione rende molto difficile il monitoraggio e rischia, ancora una volta, di minare alla base la logica stessa di solidarietà su cui dovrebbe fondarsi il piano vaccinale.
Il Financial Times celebra il successo nei paesi che hanno deciso di seguire rigidamente il criterio dell’età anagrafica, registrando che nel Regno Unito le infezioni sono calate del 95 per cento tra chi ha più di ottant’anni, e i decessi del 93 per quella fascia. Negli Stati Uniti i numeri sono simili. In Italia, purtroppo, la situazione è ancora molto diversa.
È forse ora di dire che bisognerebbe porre fine alla frammentazione del sistema sanitario nazionale in 21 sistemi differenti, legati anzitutto da un rimpallo continuo delle responsabilità. Bisognerebbe forse anche ricordarsi perché, nei momenti di crisi, le società decidono di darsi delle priorità.
Esistono due modi per uscire da una crisi come questa. Il primo si fonda sulla condivisione di un principio di solidarietà sociale che considera la presa in cura delle fragilità quale fondamento stesso del benessere collettivo. Il secondo dice che le prime cose da tutelare sono le aziende, il prodotto interno lordo e i cittadini più produttivi, in una sorta di darwinismo sociale in cui i più forti sono salvati per primi.
Tornano in mente le parole dell’assessora al welfare della regione Lombardia. In relazione ai vaccini, Letizia Moratti dice che “per gli over 80 non c’è da avere fretta”. Forse non è superfluo ripetere che non è questo il modello da seguire.
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