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Marguerite, Julien e l’estetica da spot


Marguerite et Julien avrebbe dovuto segnare l’affermazione definitiva come autrice di Valérie Donzelli, attrice passata dietro la macchina da presa. Si rivela invece l’ennesimo film francese catastrofico di un concorso debole.

I film francesi belli non sembrano mancare, abbiamo parlato di Maryland in Un certain regard, e la Quinzaine, di cui parleremo più avanti, ne ha più d’uno. Marguerite et Julien era atteso per rialzare le sorti francesi nel concorso ufficiale, ma Donzelli, nota per il film autobiografico con il suo compagno Jéremie Elkaïm La guerra è dichiarata, malgrado il capitale di simpatia su cui poteva contare sembra purtroppo avere in comune qualcosa con il film di Matteo Garrone, vale a dire l’assenza di profondità e originalità nella regia.

Donzelli si appoggia per la sceneggiatura di base a un lavoro rimasto inedito di Jean Gruault, mitico sceneggiatore della Nouvelle vague: ricordiamo le sue collaborazioni con François Truffaut (tra cui Jules e Jim), Jacques Rivette (Paris nous appartient), Alain Resnais (Mon oncle d’Amérique, La vita è un romanzo, L’amour à mort), Jean-Luc Godard (Les carabiniers), ma anche Roberto Rossellini (Vanessa Vanini).

Gruault ora fa il produttore (ricordiamo in particolare l’incredibile ciclo di documentari Mafrouza di Emmanuelle Demoris incentrato su una sorta di enclave poverissima ad Alessandria d’Egitto, praticamente Balzac sotto forma di documentario) e ha regalato a Donzelli e Elkaïm, giovane coppia nell’arte come nella vita, questa sceneggiatura scritta per Truffaut e da quest’ultimo rifiutata. Rielaborata oggi dalla coppia, la versione originale fu scritta nel 1973, vale dire in un’epoca dove in Francia la pena di morte per ghigliottina non era stata ancora abolita.

Julien e Marguerite, figli della buona borghesia francese del seicento, sono fratello e sorella, legati tra loro profondamente nell’intimo fin dalla più tenera infanzia. Sono terribilmente e romanticamente posseduti l’uno dall’altro, e arrivati all’età adulta questo possesso reciproco non può che sfociare in un inconfessabile sentimento amoroso. È una terribile storia di amori ostacolati in linea con certo cinema della Nouvelle vague, e con quello di Truffaut in particolare.

Ma qui in realtà siamo più dalle parti di Il favoloso mondo di Amélie, film paradigmatico dell’odierna “qualità francese”, per usare un’espressione truffauttiana: ci troviamo in una specie di bomboniera o in un negozio di dolci zuccheratissimi, un mondo di cartapesta che nulla ha dell’autenticità di un teatrino, ma invece ha tutto della fotografia leccata e dei procedimenti formali impeccabili tipici di questo cinema prossimo al mondo dei creativi della pubblicità, ipercolorato e forse pieno di buone idee, ma privo di un’idea del mondo da rappresentare.

Garrone – lo scrivo con dispiacere – nel Racconto dei Racconti non riesce a essere visionario, i suoi orchi e mostri viscidi non fanno davvero paura e non sono respingenti sul serio. Non riesce a lavorare sulla durata delle inquadrature, anche quando avrebbe la possibilità di farle diventare rivelazione di un momento magico – come quando nel bosco sorge una bellissima fanciulla nuda dai lunghi boccoli che pare uscita da una pittura preraffaellita – come invece capita per esempio in Hayao Miyazaki, maestro dell’incanto apparentemente infantile, oppure in Ermanno Olmi, anche nei suoi film meno riusciti. Garrone cade nella tendenza dominante: l’effettistica colorata, cioè un’estetica senza profondità.

Nel film di Donzelli siamo avvolti da una fotografia che si pretende in equilibrio tra il romantico e il fiabesco, ma che in realtà non incanta quasi mai, talmente oscilla tra l’accademico stereotipato e la melassa disneyana: l’orfanotrofio dove di notte viene raccontata la loro storia proibita sembra uscito da Pippi Calzelunghe. Senza contare le stucchevoli distorsioni temporali, a cominciare dall’elicottero che apre e chiude il film, come a voler dire che questo mondo dell’ingiustizia potrebbe tornare se nuovamente s’imponessero il pregiudizio e un sistema repressivo.

Ma Marguerite et Julien è, spiace dirlo, un film dell’ovvio, dunque invece di suggerire sottolinea. Una storia così dovrebbe emozionare dall’inizio alla fine, tanto più perché assolutamente vera: Marguerite e Julien vennero ghigliottinati (ma per adulterio, essendo Marguerite sposata, non per incesto). Però l’emozione vera, quella dall’intimo e non dalla superficie stimolata dall’effetto, non sorge quasi mai, tranne forse quando la madre trasgredendo tutto (il marito, le regole sociali, il parente cardinale) aiuta i due figli-amanti a fuggire. Ma anche questa sequenza dura troppo poco. Subito dopo si ripiomba nell’enunciazione infantile e ridondante di tutto quello che si suppone essere il canone romantico, in realtà non soltanto accumulazione di stereotipi ma di surrogati di stereotipi. Come è tipico della pubblicità.

Forse agli autori avrebbe fatto bene rivedere Lezioni di piano di Jane Campion, Palma d’oro a Cannes nel 1993. Campion si muoveva mirabilmente, come un’equilibrista sul filo, tra modernità e tradizione, avanguardia e classicismo, leggerezza e gravità, romanticismo della miglior civiltà e verità del mondo selvaggio, estetica romantica e austerità monacale. Prima di perdere l’equilibrio anche lei, e scivolare, già a partire dal lungometraggio successivo, Ritratto di signora, nel vuoto del romanticismo formattato dalla pubblicità di un profumo. L’esempio da studiare per non scivolare via, fin dall’inizio, dalla corda degli equilibri sottili.

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