Beasts of no nation non convince
Dopo una bellissima serata speciale con l’Orson Welles shakespeariano, parzialmente ritrovato (il mitico Il mercante di Venezia) e restaurato (Otello), con tanto di orchestra (l’Orchestra classica di Alessandria) che ha suonato il motivo musicale originale d’apertura del Mercante di Venezia, scritto da Alessandro Lavagnino (che aveva avuto già altre due collaborazioni con Welles), con due film si è piombati nelle guerriglie che insanguinano il mondo, guerriglie nobili e meno nobili, in ambo i casi suscitate dalla sete spregiudicata di potere, da conquistare o mantenere a tutti i costi.
Il primo, Beasts of no nation di Cary Joji Fukunaga, ha aperto ufficialmente ieri sera il Concorso di Venezia 72, ed è l’adattamento di un libro unico: l’autobiografia, dall’omonimo titolo, del nigeriano Uzodinma Iweala e della sua esperienza di bambino soldato.
Il film nell’insieme non ci ha convinto: è tuttavia difficile scrivere su un film del genere, visto la delicatezza della questione, anche perché il lavoro di preparazione e documentazione lascia ammirati.
E s’immaginano le difficoltà di lavorazione. Ma il punto è che questo film finisce per essere speculare alla volgarità di certa tv verità o realtà (povero Rossellini e povero neorealismo): il cinema è un mezzo di narrazione diverso dalla letteratura, dal teatro o dal fumetto: ha un rapporto privilegiato, diretto, con la realtà, e quel che può funzionare, per esempio in un libro, può essere pesante in un film.
Il film di Cary Joji Fukunaga finisce purtroppo per riflettere nella sua forma l’eccesso di violenza che provoca l’insensibilità del bambino in modo che diventi una perfetta macchina da guerra, o una perfetta macchina dell’odio insensato, poiché il film vorrebbe essere una metafora sulla circolazione dell’odio (leggasi: del Male).
E sull’inferno in terra creato appunto dal Male endemicamente presente nell’uomo. Oltre a suscitare una certa insensibilità nello spettatore, non totale, certo, ma significativa se si pensa alla gravità della questione, perfino un sentimento di noia fa capolino nella prima parte, interrotto soltanto dalle sequenze d’azione, che suscitano attenzione, ma non più di tanto.
La radiografia dei meccanismi di manipolazione è precisa, non lascia scampo. Ma l’eccesso di rappresentazione della violenza in certe situazioni è pornografico e sortisce l’effetto opposto: se al cinema il romanzesco per raccontare l’Olocausto non ha mai creato capolavori, contrariamente alla letteratura (Se questo è un uomo) o al fumetto (Maus), è per questo suo privilegio-limite di rapporto con il reale: si riprende, però, la rivincita nel cinema d’autore documentario.
Stanley Kubrick ben lo sapeva e ha diretto due grandi film contro la guerra, non esagerando con bellicismo e violenza, Orizzonti di Guerra e Full Metal Jacket. In quest’ultimo ci fa vedere l’addestramento dei marines che fa di individui pensanti delle perfette macchine da guerra non pensanti. Mette fuori campo la violenza per meglio farcela percepire, senza orripilarci, e crea nello spettatore una tensione interiore che spinge alla riflessione ponderata.
Oggi il cinema dell’orrore vuole mostrare troppo e finisce per annoiare: Jacques Tourneur ha realizzato film che sono oggi dei classici come Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie, suggerendo, e non frastornando con eccesso di suoni e colori saturi, come fa la pubblicità e tanta televisione che vuole dirci la “verità”.
Il troppo effetto annulla l’effetto del contenuto, qui non ci si emoziona e commuove mai, se non per brevi tratti verso la fine, e per commozione non s’intende qualcosa di melenso, ma di misurato, profondo e asciutto insieme, come il Rossellini di Germania anno zero, dove un bambino vagabondava nella Berlino distrutta del secondo dopoguerra. Il libro andava reinventato.
Le migliori traduzioni in letteratura sono in fondo quelle che sanno ben tradire nel tradurre. Forse a Fukunaga, sia detto senza cattiveria, si adattano meglio opere come Jane Eyre, l’adattamento del grande classico della letteratura vittoriana, da lui portato sullo schermo nel 2011, e giunto anche nelle nostre sale.
Winter of fire
Il secondo film è invece un documentario presentato Fuori concorso, Winter of fire, di Eugeny Afineevsky. Lo distribuirà in Italia la Netflix. Qui siamo a parti invertite: le bestie della nazione non sono i ribelli, ma chi difende un potere corrotto che vuole mantenersi in sella a tutti i costi.
Il confine tra follia e stupidità del potere è labile e il film di Fukunaga questo lo fa vedere bene, come pure questo bel documentario sugli avvenimenti di Piazza Maidan, divenuto il luogo-simbolo della rivolta in Ucraina lo scorso inverno, che opta per una strana forma grezza d’informazione-verità.
Un ibrido bizzarro che avvince dall’inizio alla fine: chi ha capito poco o per nulla i passaggi di questa vera resistenza di popolo, partita dagli studenti e poi estesasi a gran parte della popolazione, quasi un sessantotto alla rovescia (più democrazia invece della dittatura del proletariato), qui capisce tutto. Sembra un documentario di Discovery channel, ma fatto male.
E questo conferisce all’opera un qualcosa di surreale e reale assieme. Ma vediamo tutto e capiamo tutto perché il giovane regista, che ha al suo attivo numerosi lungometraggi e documentari, c’è sempre. Non si sa come abbia fatto. È ubiquo. C’è quando sparano al barelliere o quando la folla contrattacca all’assedio e alla guerra di terrore condotta da polizia e forze irregolari, spesso con azioni ignobili anche al di fuori del teatro di piazza Maidan.
Di conseguenza, come ha detto il regista, in un frangente del genere non ci si preoccupa della bella immagine. Sembra quindi un documentario ottenuto montando frammenti da Youtube, dando quindi l’impressione costante, dal punto di vista formale, di essere allo stesso livello degli eroi di piazza.
Raggiunge una sorta di forma epica al fine d’incoronare i suoi eroi, credibile proprio per questo, al contrario del ridondante film di Fukunaga. È frastornante, a tratti, come quest’ultimo, ma perché coglie tutto il caos di quelle settimane gloriose e tragiche e lo restituisce a misura d’uomo, mettendosi alla stessa altezza delle pallottole vere che avevano sostituito quelle di gomma, dei manganelli di ferro che all’improvviso avevano sostituito quelli di gomma.
Quindi il film si consente una certa retorica, una sorta di monumento ideale cinematografico fatto ora, nel presente, e non in un lontano futuro (anche se al suo interno figurano, puntuali, brevi frammenti d’interviste fatti a posteriori). Evidente nel finale, a suo modo geniale: è talmente eccessivo nella sua glorificazione che sta simpatico, diverte. Nel finale, sereno, gioca con Hollywood. Se fosse una fiction sarebbe insopportabile. Ma qui è la realtà. La verità.