C’era una volta Angoulême
La 43ª edizione del festival di Angoulême si è svolta all’insegna del fumetto western moderno degli anni sessanta-settanta, dal Lucky Luke di Goscinny e Morris al Comanche di Greg ed Hermann che sono ormai diventati dei classici.
Il palmarès della manifestazione, invece, ha premiato il coraggio, la sperimentazione, addirittura l’avanguardia con la premiazione come miglior album del 2015 di Qui, dello statunitense Richard McGuire, pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard. È stata un’edizione un po’ maledetta, connotata prima ancora di cominciare dalle polemiche, in particolare quella sull’assenza di donne nella lista dei nomi per il Grand prix de la ville, una specie di premio alla carriera che al contempo nomina il presidente dell’edizione successiva.
È perciò inevitabile spendere qualche parola sulla coda polemica innescata dalla falsa premiazione che il conduttore della cerimonia di chiusura ha messo in scena sul palco del Théâtre d’Angoulême. La scelta degli organizzatori di affidare la conduzione della serata a Richard Gaitet, un giovane comico alternativo, conoscitore della storia del fumetto nonché scrittore e conduttore su radio Nova della trasmissione Nova book box non era, in sé, una cattiva idea. E anzi la serata, anche se un po’ lunga, non ha mancato del tutto di originalità. Ma a parte il fatto che un giochino come la falsa premiazione non è ammissibile, il vero problema sono state alcune pesanti cadute di Gaitet, come alcune imperdonabili battute sessiste.
Notevoli i titoli premiati, a partire da quello giudicato come miglior libro dell’anno. Qui di Richard McGuire, disegnatore concettuale, illustratore di punta del New Yorker e del New York Times, è un capolavoro assoluto: una complessa e raffinata, quasi struggente interrogazione sul tempo in relazione allo spazio e sull’uomo in quanto elemento volatile del tempo, ma che riacquista importanza proprio grazie alle sue apparizioni ectoplasmiche che gli conferiscono nuova intensità se messo in relazione a tutti gli altri ectoplasmi (siamo nella metafora ovviamente). Qui è soprattutto un grande esempio delle potenzialità dell’esplorazione del linguaggio del fumetto che tra l’altro accrescono anche quelle evocative ed espressive del linguaggio del disegno (o della pittura).
Molto importante anche il premio andato a un titolo italiano come Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi di Pietro Scarnera (Comma 22). Dedicata alla vita di Primo Levi, è un’opera d’interrogazione che non rinuncia alla sperimentazione. Per una generazione che non ha vissuto gli eventi drammatici raccontati da Levi in prima persona, la memoria e la storia sono elementi da cui cercare di trarre un insegnamento per il futuro.
Il fatto che nella giuria figurassero personalità del calibro di un autore di fumetti concettuali come Matt Madden, il rapper Hamé e una critica, storica e teorica del cinema come Nicole Brenez, insegnante e collaboratrice di punta di varie riviste di cinema di riferimento, tra cui i Cahiers du Cinéma, ha certo influito su questo bel palmarès. Sarebbe però ingiusto non salutare il premio del pubblico, andato a Cher pays de notre enfance. Enquête sur les années de plomb de la Ve République di Benoît Collombat ed Etienne Davodeau, che rimescola nel passato torbido della Francia del dopoguerra, cioè sul ruolo del Sac, il servizio d’ordine gollista.
Il pomo della discordia
Il Grand Prix è dunque andato a Hermann, 77 anni, figura storica del fumetto popolare belga e significativa firma del fumetto d’autore: sarà lui, l’anno prossimo, il direttore del festival. La sua serie western su Comanche, realizzata sulle sceneggiature di Michel Greg, è tra quelle, insieme al Blueberry di Jean Giraud-Moebius e Jean-Michel Charlier, che hanno rinnovato il genere del western a fumetti. È curioso, del resto, che questo rinnovamento sia giunto dall’Europa, e non dagli Stati Uniti dove il genere western non ha mai brillato. Ai franco-belgi possiamo aggiungere gli italiani Tex Willer di Bonelli e Galeppini e ancor più il Ken Parker di Berardi e Milazzo, notevole incrocio tra fumetto popolare e fumetto d’autore.
Non c’è dubbio che siano stati invece i western di Don Siegel, Sam Peckinpah e Sergio Leone ad aver influenzato i western realisti di Blueberry e Comanche e quello umoristico di Lucky Luke, al quale riesce il miracolo di creare l’illusione presso il lettore sulla veridicità dell’ambientazione storica delle vicende, un po’ come succedeva con Asterix. I western di Comanche, il cui primo episodio risale al 1969, sconvolsero il mondo del fumetto negli anni settanta, così come quelli di Blueberry.
Entrambi proposero un western per la prima volta violento e selvaggio ma anche più veritiero, una narrazione sulla solitudine dell’uomo, maledetto da una sorta di predestinazione, dove il segno di Hermann giocava un ruolo fondamentale nella sua espressione, rivelando via via sempre più la sua forza nervosa unita a una raffinatezza aerea ed eterea, spirituale, che si esprimerà al meglio nella saga postatomica Jeremiah e nel ciclo medievale di Le Torri Bois-Maury ( che Mondadori Comics ha appena cominciato a pubblicare nella sua collana Historica).
Proprio come nei fumetti di Jeremiah, Hermann ci pare prossimo all’anarchismo libertario di un Peckinpah. In seguito ha realizzato molti graphic-novel, realizzati con tecnica pittorica, come Sarajevo-Tango, una sua reazione all’assedio di Sarajevo, e Caatinga, sui cangaçeiros del Nordeste brasiliano. Eppure spesso è stato tacciato di essere un reazionario. Strano paradosso, ma forse la sua etichetta destrorsa sarà servita a trarre il festival dall’imbarazzo nel conferirgli questo premio tardivo, dopo la polemica sull’assenza di donne dalla lista dei possibili premiati.
La questione dell’assenza di autrici di fumetto è stata del resto grottesca, perché se è vero che ci sono diverse donne da riscoprire, è difficile che questo sovverta la storia del fumetto. Ma il punto fondamentale è che il premio alla carriera, ormai da tempo, aveva ricompensato gran parte degli autori più importanti della vecchia generazione, aprendosi di recente ad autori anagraficamente più giovani: perché allora non premiare anche delle autrici? Autrici altamente significative, tradotte un po’ dappertutto, ormai ce ne sono tante. Solo in Italia esiste un terzetto di primo livello come Gabriella Giandelli, Francesca Ghermandi e Leila Marzocchi.
La tematica comunque si porrà ancora e l’imminente mostra Comix creatrix: 100 women making comics (House of Illustration, dal 5 febbraio al 15 maggio 2016), curata dal critico e storico britannico Paul Gravett, fornirà altra materia di discussione.
Nell’attesa, ci auguriamo una modalità nuova nel conferire il Grand Prix, forse anche consultandosi con le autrici e gli autori sulla modalità del rinnovamento, aspetto tanto più importante per un festival che ambisce sempre più ad assumere una connotazione internazionale.
Come testimonia il fatto che il premio negli ultimi anni è andato all’argentino José Muñoz, agli statunitensi Robert Crumb, Art Spiegelman e Bill Watterson, e infine al Giappone con Otomo, s’impone sempre più la necessità di liberarsi definitivamente dai lacci di procedure ormai stantie, perché rivelatrici di una dimensione locale, provinciale, dispiaccia o meno agli autori e agli editori francofoni.