Terrence Malick con Voyage of time delude le aspettative
Si parla della madre – madre Terra e madre Universo – in questo film circolare sul passare del tempo. Superquark e simili farebbero meglio? Probabilmente no. Ma è davvero un complimento per un cineasta come Terrence Malick? Ovviamente no.
Il suo Voyage of time: life’s journey, presentato in concorso al festival di Venezia, racconta quattordici miliardi di anni in novanta minuti partendo dal big bang ed è una specie di poema scientifico filosofico dai risvolti mistici e perfino mitici. O almeno vorrebbe esserlo. Perché non siamo lontani dalla melassa new age, cioè da quella sorta di caricatura, nata negli ultimi decenni, di filosofie e pensieri alti, a cominciare dagli studi di Carl Gustav Jung.
Eppure qualcosa resta: chi lo ha detto che i documentari scientifici, nelle loro espressioni migliori, non sfiorino qualcosa dell’emozione artistica basica? A ben vedere, trasmissioni televisive come lo splendido ciclo di Cosmos dell’astrofisico Carl Sagan, presentato da Quark negli anni ottanta, dimostravano maggiore cultura, sottigliezza, trasporto emotivo e fascinazione (anche grazie alla voce incredibile di Sagan) per le meraviglie del Creato – come si sarebbe detto nell’antichità – di quanto ne dimostra il film di Terrence Malick, cineasta laureato in filosofia teoretica ed ex professore di filosofia al Mit.
La voce narrante di Cate Blanchett è suggestiva quanto basta, ma nulla di più: le immagini cosmiche sono molto belle, come quando confluiscono in una medusa primordiale, e le immagini di certi paesaggi, che sembrano quasi dipinti a olio, potranno colpire, soprattutto se si vedrà il film sul grande schermo.
Sono immagini esteticamente forti, tuttavia non profonde: rispetto a quanto raccontano non dovrebbero suggestionarci, ma piuttosto sconvolgerci, ma non ci riescono. Malick realizza la prima opera cinematografica non di finzione che muta il racconto scientifico in racconto mistico trasformandolo infine, a racconto concluso, in una forma di mito. E in questo rivela una voglia di sperimentazione, anche se primordiale.
Voyage of time: life’s journey può dare fastidio tanto a chi ha una visione della scienza razionale quanto ai creazionisti, visto che sposa in pieno la teoria evoluzionistica. Ha il coraggio di collocarsi in un punto intermedio intellettualmente scomodo per tutti. Il film innova e sperimenta meno di quanto lo fece un documentario come Koyaanisqatsi (1982), che, giocando sull’immagine accelerata, colpì molti spettatori dell’epoca, ma che oggi mostra tutti i suoi limiti.
Il film di Terrence Malick vuole indagare con il racconto scientifico la dimensione ancestrale e divina che alberga in tutti noi (Dio siamo noi e noi siamo Dio), cercando di suscitare il senso dell’incanto tipico dell’emozione bambina, basica, ma cercando di farla coincidere con l’emozione primordiale. E narra tutto con un tono intimo, con il probabile intento di accentuare questo aspetto. Questa è la sua bellezza.
È un beffardo paradosso per un’opera che vuole narrare l’incommensurabile grandiosità della creazione l’aver fatto una scelta di bellezza tanto limitata: perché veicola la superficie delle emozioni adolescenziali da videoclip più che le emozioni profonde celate nel profondo dell’inconscio infantile, o, per restare al film, nel bambino (s)perduto nel grande utero cosmico. A cui tutti noi torneremo, madre Terra compresa.