La poesia sociale di Wang Bing vince il Pardo d’oro a Locarno 70
Le frontiere del cinema d’autore più avanzato nel raccontare la follia del reale, quello sociale e quello capitalistico, partendo sempre dall’umano più ravvicinato, anche quando il taglio è più indiretto o metaforico. Spesso mettendo al centro le donne oppure le comunità, altrettanto spesso giovanili. Questo eccellente palmarès di Locarno 70 ha il grande merito di aver premiato gli esempi migliori.
Non c’è dubbio però che il Pardo d’oro andato al regista cinese Wang Bing, tra i più grandi registi del cinema mondiale, per il suo documentario Mrs Fang di cui abbiamo scritto nei giorni scorsi, coroni un percorso tra i più coerenti e forti della cinematografia internazionale e speriamo che possa finalmente arrivare nelle sale italiane.
Maestro del documentario d’autore, Wang ha fotografato meglio di tutti la grandezza e la purezza dell’umano in un reale sempre più inconoscibile e irrazionale, in Cina come nel mondo intero. Riesce perciò a raccontare il reale e la sua follia sociale neomedioevale, sia per quel che riguarda le devastazioni storiche provocate dal maoismo sia per quelle che oggi la dittatura di quel paese impone con le logiche liberiste del capitalismo.
Un organismo unico
Stavolta scatta la sua fotografia fermandosi su qualcosa di immobile, una sorta di natura morta vivente, una donna immobilizzata a letto e ormai con i giorni contati, la signora Fang del titolo. Doveva essere in principio un documentario su questa donna la cui storia aveva colpito il regista. Una volta avuta la notizia che la sua malattia aveva preso una definitiva curva discendente, si è trasformato in un omaggio pudico, l’opposto della pornografia di certo giornalismo e di tanta televisione.
Se pone molti interrogativi sull’assistenza sanitaria in un paese che è il laboratorio del peggior liberismo , il film rappresenta sia quelli che restano (nel movimento della vita), cioè la comunità, sia la donna silenziosa, immobile e ripresa in perenne primo piano. E, con discrezione e sobrietà, celebra in maniera forte, unica, la forza della vita e l’amore per essa. Pienezza (la comunità) e sottrazione (la donna, ripresa quasi sempre in primo piano), due (non) movimenti contrari (fondamentali nell’arte grafica e pittorica cinese) sono qui come un organismo unico, simbiotico.
Atti d’accusa dal Brasile
La comunità può scivolare però nella follia dell’alienazione e dell’odio per ciò che le sembra diverso, che non conosce. È un film politico sotto forma di fiaba, molto strana, anarchica, dai toni intimi e con un gran senso delle ambientazioni e delle atmosfere, l’eccellente quanto gradevole As boas maneiras dei brasiliani Juliana Rojas e Marco Dutra (sempre Concorso internazionale) a cui è andato invece il premio speciale della giuria.
Storia semplice ma non manichea di un bimbo-lupo mannaro allevato da una donna povera che lavora nelle case dei ricchi (dove il bimbo è stato partorito), ha anche il merito di non far uso di semplificazioni pur restando leggibile ai più, di far uso della metafora per meglio commentare il presente. Un po’ come si fa quando si vive sotto le dittature. Questo elemento nella storia dell’arte ha sempre aumentato e non tolto finezza e forza a quanto un’opera artistica vuole esprimere.
Indubbiamente il film, un atto d’accusa al potere della chiesa in quel paese (il violentatore-lupo mannaro è un prete), risente del clima di golpe, di dittatura simulata, di cui è espressione anche un altro film brasiliano presentato al festival, Era uma vez Brasilía dell’ex calciatore Adirley Queirós giunto al suo secondo lungometraggio dopo alcuni corti e documentari (presentato nella sezione Signs of life e premiato con una menzione speciale).
Si tratta di uno straordinario film di fantascienza sotto forma di documentario (o viceversa) ambientato a Brasíla nel 1959, alcuni anni prima del cruento golpe del 1964 voluto da Lyndon Johnson all’interno dell’operazione Condor in America Latina. È utile ricordarlo perché il film tratta di democrazia defraudata e ancor più d’incredulità verso quanto si verifica, esprimendo al meglio quella sorta di sentimento d’inconoscibilità del reale di cui parlavamo in apertura.
Le accuse di corruzione all’ex presidente Lula o alla ex presidente Dilma Rousseff, anche se vere, lasciano la sensazione di un golpe giuridico contro coloro, come esplicitamente rivendicato dal regista, che hanno tentato “una politica più giusta ed egualitaria”, un avvertimento anche per altri in futuro.
Chi crede infatti che i loro predecessori o successori, eventualmente più graditi ai poteri forti, ne siano esenti? Anche un altro splendido film brasiliano come Acquarius, presentato a Cannes nel 2014 e uscito anche da noi in sala grazie a Teodora, per mezzo della metafora, in particolare nel non rassegnato finale, esprimeva un atto d’accusa contro l’attuale situazione politica e sociale, in particolare per il depauperamento del senso di comunità e di convivenza da parte di un liberismo aggressivo che pare aver perso ogni pudore. Vedendo un paese sull’orlo di una guerra civile, anche Kleber Mendoza Filho, regista di Acquarius, ha espresso con i mezzi d’informazione, compresi quelli europei, l’opinione che fosse in corso una forma di golpe nei confronti del paese, in particolare contro le comunità più povere.
Originalità non convincenti
Il francese F.J. Ossang ha avuto invece il premio per la miglior regia per 9 doigts e a Isabelle Huppert, perfetta come sempre, è andato il premio della miglior interpretazione femminile in Madame Hyde di Serge Bozon, ex critico dei Cahiers du Cinéma. Tutti e due i film hanno elementi potenti e di grande originalità anche se non ben risolti. La commedia con la Huppert, insegnante fredda e nevrotica che dopo essere stata colpita da un fulmine diventa di notte un fantasma di fuoco, è un omaggio e un rovesciamento della poesia dell’horror suggerito, fatto di suggestioni e inquietudini, dal regista Jacques Tourneur, il regista di film come Il bacio della pantera oppure Ho camminato con uno zombie a cui Locarno ha finalmente dedicato una bella retrospettiva curata da Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi.
Ma le due cose non si amalgamano al meglio per produrre qualcosa di intenso e profondo, anche se l’idea di base e diversi momenti forti impediscono al film di risolversi in un esercizio vano pur se ricco di grazia. Il caso del film di Ossang, regista visionario e rock, è davvero unico. Anche qui l’amalgama tra la potente dimensione visiva e i dialoghi teatrali, che sembrano quasi voler giocare con il limite della teatralità, ai limiti della parodia, non provocano quello straniamento che il film sembra voler suscitare.
Non ci viene in mente un altro caso del genere, vale a dire una qualità dell’immagine tra le più forti viste al cinema negli ultimi anni (anche se richiama un po’ il primo Lars Von Trier, quello di Gli elementi del crimine ed Europa), nella costruzione delle inquadrature, nella qualità fotografica, nel montaggio, ma dalle forti carenze nella scrittura dei dialoghi e diremmo anche in una certa misura nella direzione degli attori, che sembrano un po’ troppo spesso parlare a vuoto, come estranei a quanto affermano.
Limbo di ghiaccio
Il premio per la miglior interpretazione maschile è invece andato al bravissimo Elliott Crosset Hove protagonista di Vinterbrødre dell’islandese Hlynur Pálmason, film d’esordio che è una rappresentazione originale dell’alienazione e della ricerca dell’umano di una comunità di operai all’interno di un limbo di ghiaccio.
Mentre le donne, una delle due linee principali d’indagine dei film selezionati quest’anno a Locarno, in linea generale sono riprese in quanto individui, nella forza della loro singolarità, gli uomini, intesi come comunità, sono raccontati al loro interno, a volte in un rapporto conflittuale più o meno marcato. È il caso di Vinterbrødre come, spostandoci in Cineasti del presente, di Beach rats, secondo lungometraggio della statunitense Eliza Hittman, ritratto all’apparenza del perfetto teenager sportivo dalla faccia acqua e sapone, ma dai notturni incontri gay, che finisce per far degenerare in maniera inattesa i suoi rapporti con la comunità di amici etero.
Menzioni sul crinale
L’incertezza, forse inconcludente forse no, domina le comunità maschili rappresentate in film come il portoghese Verão danado. Opera d’esordio di Pedro Cabeleira, è uno spaccato generazionale come non lo abbiamo mai visto prima, dall’approccio libero, realmente artistico, a cui è andata la menzione speciale. Mentre il premio come miglior film della sezione è andato comunque a un bel film, anche se decisamente più classico, come il bulgaro ¾ (Three quarters) di Ilian Metev, altro esordiente (la Bulgaria l’anno scorso aveva vinto il Concorso) che ha realizzato uno spaccato di famiglia e insieme un ritratto di donna – tutti e due nell’incertezza, sul crinale – vivido, fresco, preciso nella scrittura, sia di sceneggiatura sia di messa in scena.
Menzione speciale che deve condividere con il film documentario Distant constellation della statunitense Shevaun Mizrahi, ambientato in un ospizio di Istanbul, dove ogni anziano racchiude una pepita di memoria spesso rimossa (come il genocidio armeno) mentre all’esterno fervono grandi lavori pubblici. Interessante ritratto di una comunità di anziani in un luogo particolare, ma non sempre intenso come vorrebbe. A un altro film d’esordio, il coraggioso Meteorlar del turco Gürcan Keltek, è andato comunque lo Swatch art peace hotel award, forse un po’ diseguale, ma nell’insieme straordinario ritratto visionario della dimensione ancestrale e arcaica e insieme forte documento di denuncia politica della situazione attuale in Turchia.
Il premio principale della sezione First feature è andato a Scary mother, notevole ritratto di donna della georgiana Ana Urushadze di cui abbiamo scritto in apertura di festival.
Per tornare ai premi di Cineasti del presente, la giuria presieduta dal regista egiziano Yousry Nasrallah e di cui faceva parte anche l’italiana Paola Turci, ha giustamente premiato con il premio speciale della giuria Cine+ il film Milla della francese Valérie Massadian che firma anche la sceneggiatura e il montaggio. Impressionante ritratto di ragazza d’oggi che diventa presto ragazza madre (il giovane compagno marinaio muore in mare), riesce per due ore a essere denso con inquadrature secche, asciutte, stupendamente composte e messe in successione, il tutto con suoni e pochi dialoghi malgrado siano appena udibili. Notevoli i due giovani attori protagonisti, il critico francese di cinema del quotidiano Libération Luc Chessel e soprattutto Severine Jonckeere, anche se nella seconda parte subisce la concorrenza di suo figlio Ethan, stupendamente diretto. Ecco un film dalla scrittura non solo non scolastica, ma originale e dalla forte umanità e capace di trasmettere empatia verso i propri personaggi, privo insomma di quelle dissonanze che abbiamo riscontrato negli altri due film francesi. Premio al miglior ritratto di regista emergente al sudcoreano Kim Dae-Hwan per The first lap, al suo secondo lungometraggio (firma anche sceneggiatura e montaggio), per un ritratto intimo e piuttosto riuscito di famiglia nell’incertezza dei meccanismi sociali della Corea di oggi.
Migrazioni senza metafore
Il palmarès conferma che Locarno resta un grande luogo di scoperta e sperimentazione, di contaminazione tra forme ispirate più classiche e innovative del cinema odierno. In questo panorama che spesso sceglie l’immagine metaforica, quasi spaziale, è necessario un accenno a due brevi film italiani meritevoli d’attenzione, poco visibili al festival.
Ibi di Andrea Segre, presentato Fuori concorso e che potrete vedere al festival di Internazionale a Ferrara, è un importante ritratto, omaggio, lavoro d’indignazione non urlata, sull’incredibile vicenda di una donna, Idi, nata nel 1960 in Benin e morta nel 2015 in Italia vicino a Napoli dove viveva, ricostruito attraverso i materiali da lei stessa girati autofilmandosi per raccontare la sua vicenda e integrati con immagini ex novo girate da Segre.
È la testimonianza di una persona che dopo aver pagato con la prigione ha cercato di uscire dal tunnel del traffico di droga nel quale era caduta per aiutare la sua famiglia. Una storia sui meccanismi della giustizia che non brillano di lungimiranza. Soprattutto è il ritratto di una comunità, anche di italiani di nascita, che cerca di reagire e di essere riconosciuta e considerata, non emarginata.
Infine, Granma di Daniele Gaglianone e Alfie Nitze. Cortometraggio Fuori concorso sceneggiato da Gianni Amelio e prodotto da Gianluca Arcopinto, testimonia tutta la potenza registica, visiva di Gaglianone capace di costruire un dramma onirico e al tempo stesso estremamente reale grazie alla fisicità sensuale della sua messa in scena (dalla regia al montaggio, passando per la fotografia e il sonoro) incentrato sulla storia di un ragazzo, Igbo, giovane musicista di talento che parte insieme alla nonna per dare alla famiglia la notizia della morte del cugino andato in Europa. In trenta minuti siamo dentro, quasi fisicamente, nella loro pelle e nei loro occhi. Certo anche grazie all’apporto di Nitze, che forse racconta qualcosa di parzialmente autobiografico o quantomeno di vicino alla sua esperienza.