La vita invisibile di Eurídice Gusmão, tra telenovela e cinema d’autore
Dopo una lunga serie di immagini fisse sulle quali sfilano i titoli di testa e che inquadrano una natura lussureggiante, dai colori vividi, ipnotici, il racconto prende inizio vicino al mare, tra gli scogli e i dirupi. Se quelle immagini sembrano richiamare una prossimità con la foto d’arte e le installazioni, l’estetica della sequenza che segue è più naturalistica, ma i colori, il verde soprattutto, restano di una certa intensità. Due ragazze di circa vent’anni sono inquadrate in un’atmosfera sospesa, vagamente inquieta, rafforzata da un commento musicale discreto ma persistente, che annuncia un possibile temporale, forse una tempesta. Una si alza, l’altra resta seduta, pensosa. Il vento muove le fronde degli alberi mentre vediamo una delle due ragazze inerpicarsi tra la vegetazione esotica e rigogliosa, avanzando tra cespugli e alberi dalle gigantesche radici ricoperte di muschio. Nel risalire si distanziano, poi si chiamano l’un l’altra. “Eurídice!”, dice una. “Guida! Aspettami!”, dice l’altra. La prima chiama ancora, senza l’altra sembra sentirsi come perduta in quel verde avvolgente. Quasi obnubilante.
Subito dopo questo lungo prologo, dissolvenza sul nero poi, accompagnata da una musica al pianoforte, l’immagine torna circondata sempre dal nero, come fosse un quadro. Oppure una foto proveniente da un passato recente. Immersa in una luce bianca, soffusa, vediamo una delle due giovani stagliarsi da una porta che quasi la incornicia insieme a una tenda – aperta a metà – di un azzurro turchese e semitrasparente che ondeggia al vento. Per un momento pare un’immagine fantasmatica, distante, lontana, forse perduta per sempre. Un’estetica espressione di una grazia oggi scomparsa.
Questo l’incipit, ammaliante, dello straordinario film brasiliano La vita invisibile di Eurídice Gusmão di Karim Aïnouz, adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice e giornalista brasiliana Martha Batalha che arriva ora nelle sale italiane dopo aver vinto il premio come miglior film nella sezione Un certain regard dell’ultimo Cannes. Senza contare la candidatura agli Oscar per il Brasile come miglior film straniero e l’esser stato designato come miglior film dal Sindacato nazionale dei critici italiani.
È la storia, incredibile, appassionante, nel Brasile degli anni cinquanta di due sorelle molto somiglianti e insieme molto diverse, in realtà legate tra loro come due vere gemelle malgrado abbiano una differenza di età di circa due anni (Eurídice ha 18 anni, Guida ne ha 20). Eurídice sogna di diventare una grande musicista. Guida sogna invece il grande amore, fuori dai canoni. Entrambe sognano di avere una vita felice seguendo i loro desideri, le loro aspirazioni. Entrambe sperano di rivoluzionare le convenzioni sociali dell’ambiente circostante che dietro l’estroversione, una certa follia apparente, nasconde le tradizioni oppressive di una società dominata dalla cultura patriarcale.
Aïnouz confonde e annulla i livelli tra narrazione intima e sociale, romanzo e melodramma, cinema d’impronta realista e cinema che trasfigura, tra sperimentazione e classicismo, tra telenovela e cinema d’autore. Tutto tiene in una sapiente alchimia di equilibri, fatta anche di tanti piccoli tocchi, come quelli di un pittore su un quadro. Del resto, quest’alchimia è altrettanto vera sul piano formale, sintomo di una perfetta unione tra la dimensione narrativa con quella visiva. Ma prima di approfondire quest’ultima, soffermiamoci su quella narrativa.
Se Guida sogna un amore di fantasia adolescenziale con il marinaio romantico che si rivelerà invece seduttore e manipolatore lasciandola, disillusa, a un futuro di povertà e ragazza madre, le due sorelle sono unite in maniera quasi simbiotica, al limite del rapporto amoroso, per quanto sempre platonico. Quando Guida parte incontro al suo destino, Eurídice si butta ad aspirare gli odori della sua biancheria intima. E per anni le lettere, che resteranno senza risposta, di Guida a Eurídice hanno un chiaro taglio amoroso, potenzialmente al limite del morboso ma prima di tutto piene di grande sentimento e delicatezza. Esprimono un costante anelito al momento in cui si ritroveranno e potranno vivere felici insieme. Per sempre. Quasi il desiderio di un’infanzia perenne. Del resto Eurídice cita non a caso il Peter Pan di Walt Disney, uscito in quegli anni.
Essere ragazza madre negli anni cinquanta non era uno scherzo, ancor più in Brasile. Cacciata dal padre, con una madre sottomessa al suo volere, Eurídice vivrà un’esistenza costantemente segnata dal fatto che i genitori le hanno fatto credere che la sorella fosse morta. Guida – che nel film qualcuno trova sia un nome difficile da ricordare o pronunciare forse perché ricorda il nome di Giuda, sinonimo di tradimento e disonore – sarà invece segnata dal costante interrogativo sul perché la sorella non risponda alle sue lettere. Non vogliamo rivelare molto di più. Crediamo sia chiaro che in un contesto sociale del genere se la donna è vittima di un uomo che la seduce, a farle poi pagare la propria ingenuità sia sempre un uomo. La cultura maschilista, qui uccide due volte, uccide sempre. In realtà uccide tutti, anche il padre.
Architetture oniriche
Tutto questo è avvolto in una dolcezza dall’onirismo persistente. I colori saturi ricercati dal regista che rievocano l’estetica ottimista delle cartoline degli anni cinquanta sono sempre modulati sapientemente con l’estetica dal registro più naturalistico. Quasi in ogni inquadratura i personaggi sono immersi, circondati, da muri, linee prospettiche, intersezioni divisorie, negli interni come negli esterni, che creano una grande vivacità visiva e una (ri)esplorazione degli ambienti, della loro veridicità e autenticità. Una sorta di mirabile unione formale che è l’opposto della vicenda delle due sorelle, due sorelle-specchio progressivamente sbriciolate, frantumate dal determinismo sociale. Ma queste linee divisorie sono avvolte in un onirismo costante che crea una sorta di stranissima psichedelia rétro, e non soltanto per il verde dominante, avvolgente. Non deve stupire: il regista è laureato in architettura, ha realizzato installazioni oltre che documentari, fiction televisive per la Hbo e diversi altri lungometraggi selezionati a Cannes, Berlino e per due volte a Venezia.
In definitiva questo mosaico o carnevale di colori pare la metafora, o lo specchio, del Brasile. La sua droga, positiva e negativa insieme. Come se il paese fosse una gigantesca e coloratissima prigione fatta di divisioni classiste e arcaiche. Divisioni classiste che si vuole far persistere in tutti i modi perché per la prima volta c’è la possibilità potenziale che si dissolvano e i Bolsonaro, i Trump, sono la risposta quasi rabbiosamente impaurita di fronte alle nuove generazioni che accettano ormai in larga parte una società interrazziale e interclassista e avessero paura che gli schiavi, e le schiave soprattutto, sfuggano a una politica da sempre basata sulla paura, dell’altro ma non solo. Qui si parla del passato per meglio parlare del presente. Il presente è appena fuori campo, per meglio entrare in campo nel finale.
Un presente prosaico e rarefatto insieme, dove aleggiano i fantasmi, spiriti senza pace come le questioni irrisolte, insieme a un nuovo potenziale futuro luminoso. Per questo abbiamo parlato di presenza fantasmatica, intesa nel senso di ombra, di simulacro. “Mia madre è l’ombra di mio padre”, dice Guida all’inizio. Nulla però ha mai fine, c’è sempre una possibilità sembra dirci il finale, una possibile reincarnazione, almeno in senso figurato. La ragazza abbandonata, perduta nella foresta della vita – l’angoscia nel bambino dell’abbandono nel bosco è un archetipo ricorrente nelle fiabe – si dissolve come la ninfa Euridice del mito greco ma, rompendo una circolarità non più immutabile, lascia il passato per riunirsi, nel presente, alla sua (nuova) Guida. Se si crede a un futuro fondato sulle relazioni umane e la parità tra generi e razze. E sui giovani.