Nello specchio del Re Granchio
Un uomo barbuto a torso nudo recupera dal fondale di un fiume o di un lago un ciondolo con una sorta di mezza luna. Poi, controcampo inusuale, lo vediamo dal basso guardare il ciondolo. O meglio, l’impressione è quella ma essendo ripreso tutto partendo dal riflesso nell’acqua è evidente che la camera in realtà riprende non dal basso ma dall’alto. Il sopra e il sotto, il diritto e il rovescio sono apparenza. Il movimento dell’acqua smossa dal ritrovamento pian piano si placa, l’immagine, quasi da pittura impressionista, diventa più definita e finalmente appare il volto dell’uomo barbuto. È corrucciato, concentrato. Lo vediamo poi risciacquare l’oggetto nell’acqua: assicurarsi il suo nitore, in questa sequenza filmata in controluce, ha la sua importanza.
È l’inizio, il breve prologo prima del titolo, di uno dei film-rivelazione dell’ultimo Cannes, l’italiano Re Granchio, opera prima dalla notevole freschezza di una coppia di giovani registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Presentato alla Quinzaine des réalisateurs dove ha riscosso un reale successo di pubblico e critica internazionale e ora Fuori Concorso al Torino Film Festival, esordiscono nella fiction dopo alcuni apprezzati documentari di poesia e storico-antropologici. Il cast è composto da attori quasi tutti non professionisti, ma che conoscevano bene per averci lavorato nei documentari precedenti. Una sorta di comunità cinematografica, specchio di quella raccontata. Ed è curioso questo loro approccio al cinema e alle origini, se si pensa che uno ha madre americana e l’altro è nato in Louisiana. Anche Gabriele Silli, che interpreta il protagonista, non è un attore ma proviene dal mondo dell’arte; fa eccezione Maria Alexandra Lungu che aveva già lavorato con Alice Rohrwacher: un volto notevole che interpreta la musa del protagonista.
Dopo il titolo, si passa dal caldo all’inverno, dal (presumibile) passato atemporale al presente. Un anziano è inquadrato in primo piano e si avvia all’interno di una locanda dove lo vediamo prendere parte a un pranzo con amici. La situazione conviviale si nutre di passato e di memoria lontana nel tempo, di vicende storiche che sono leggende e viceversa. Siamo a Vejano, un villaggio situato nella Tuscia viterbese. Cantano: “Il figlio del dottore è mezzo matto. Col fuoco e col furore giustizia ha fatto”. Il canto come il racconto riguardano un certo Luciano, vissuto a fine ottocento.
Figlio di una persona facoltosa e influente per quei tempi, si sentiva del tutto estraneo alle regole di vita imperanti, a quell’ambiente. Un bastian contrario a pieno titolo. Innamorato della figlia di un contadino, finisce per dar fastidio alle autorità locali, al principe della zona, per via delle sue critiche alle vessazioni quasi capricciose che il principe fa subire alla comunità. “A Vejano c’era la fame a quei tempi. C’erano i principi e la povera gente”: spiegano gli anziani cacciatori, ultimi esponenti di un mondo che sta scomparendo sotto i nostri occhi (disattenti). Poi, dopo questo secondo prologo quasi da documentario, inizia la finzione, il racconto nel passato, diviso in due capitoli situati, a livello spazio-temporale, agli antipodi.
È davvero il caso di dirlo, poiché c’è una rottura, uno squarcio improvviso nella narrazione: circa a metà film il racconto vira improvvisamente in lingua spagnola e si sposta in Argentina, a Ushuaia nella terra del fuoco: alla “fine del mondo”. Ma qui mancano informazioni ancor più che per la prima parte e i registi, malgrado le loro ricerche, hanno dovuto immaginare molte cose perché a un dato momento “i racconti non parlano più di questo Luciano”, come dice ancora l’anziano dell’apertura: “All’epoca non esisteva la televisione, si stava intorno al cammino e si raccontavano le storie, come quella di Luciano”. E un altro aggiunge: “La gente racconta quello che sa. Solamente è che se lo racconta in dieci parole dopo, quando viene tramandato, diviene di quindici parole, poi di cinquanta parole e alla fine è un po’ inventato e un po’ vero. Poi vai a sapere quale è il vero e quale è il falso”.
Il film è dichiaratamente questo. In evidente contrasto con l’autorità che opprime gli esseri umani più inermi e pretende di avere una sola ragione da imporre senza sentire ragioni, una verità assoluta e pertanto non contestabile, strutturato su contrasti, antipodi e rovesci, indaga le origini del racconto, del mito, del suo senso all’interno della comunità, quando ancora la radunava per un’esperienza collettiva di conoscenza e di contatto umano, di empatia, proprio come il cinema rispetto alla televisione. Ed è anche una narrazione sul relativismo dei punti di vista, sul fatto che la verità appartiene quasi al regno dell’inconoscibile. Per questo mette in evidenza, ma senza ridondanze didascaliche, i mille rivoli che prende il racconto mediante le narrazioni orali. Va alle sorgenti del racconto, del mito, come per ritrovarne il senso profondo in un’epoca di saturazione non solo delle narrazioni in quanto tali, e che peraltro arrivano da tutte le parti, ma di narrazioni spesso eccessivamente standardizzate e soprattutto codificate. Quindi lavorare su topoi e codici dell’avventura o del western, come i due cineasti hanno dichiarato, significa qui ricondurli alla dimensione grezza dell’ancestralità, al racconto orale di base: poiché certamente anche i western e le storie di pirati alle loro origini erano mille racconti orali, con magari un fatto vero alla base ma che poi, per via di aggiunte incontrollate e molteplici, prendevano un senso e direzioni diverse da quello iniziale, in parte o del tutto.
Ritornare alla sorgente delle narrazioni abbiamo detto. Del resto, qui è fondamentale l’elemento acqua, tersa o inquinata che sia. L’acqua con cui bere, rinfrescarsi o farsi il bagno, l’acqua che circonda la terra come un’isola in mezzo al mare, o un lago sperduto nelle Ande che funge da mito irraggiungibile al pari del mitico El Dorado inseguito dai conquistadores spagnoli.
Visivamente sontuoso senza mai essere leccato, rarefatto e possente nella seconda parte, dove si pensa alla potenza di alcuni dei capolavori di Werner Herzog come Aguirre furore di Dio (1972) o Fitzcarraldo (1982). Nella prima parte, immersa nella luce voluttuosa, dolce e talvolta crepuscolare del nostro paese, si pensa invece, ma senza scimmiottare o citare, a innumerevoli registi, da Ermanno Olmi ai fratelli Taviani, passando per Vittorio De Seta: ai suoi lungometraggi e forse soprattutto ai suoi memorabili documentari malgrado la loro brevità, perché insieme astratti e antropologici, sperimentali e poetici.
Ma nella prima parte, quando Luciano e la sua Lei – con la L maiuscola poiché si racconta di Luciano ma tutto ruota intorno a questa ragazza – deambulano nella campagna mano nella mano, si fermano a parlare, le immagini, per la loro forza e cura compositiva, sono pura magnificenza, puro incanto. Sono pittura e dai molti rimandi possibili ma che coabitano in un miracoloso equilibrio con il registro più naturalistico e documentario senza sabotarlo. Quando il film uscirà in dvd o blu-ray che il lettore faccia il fermo immagine su queste sequenze: dei quadri faranno la loro apparizione.
Quest’opera di opposti che s’incontrano e sorreggono a vicenda è una storia d’amore impossibile, romantica, malgrado il film sia pervaso sottotraccia dal determinismo sociale, a sua volta avvolto da una forza evocativa e spirituale.
Un film, in definitiva, che si riflette nell’acqua. E come il riflesso nell’acqua rovescia le cose e ne sovverte il senso diritto oppure, inversamente, ne rivela il senso nascosto, Re Granchio è un racconto rovesciato, allo specchio. Un film sottosopra per meglio capire l’ordine delle cose, il loro vero senso, o senso “altro”. Forse, invece delle chimere di ricchezza delle leggende, ci spinge, metaforicamente, a (ri)trovare il paradiso perduto, o ancora, nascosto: quello della purezza dell’animo, della verità interiore. E dell’amore. L’unico antidoto alla folle ricerca ossessiva di potere e dominio.