Maigret di Patrice Leconte rinnova il fascino del cinema d’atmosfera
Il cinema di oggi, d’autore e non, forse impaurito dal successo delle serie, impostate in genere su un lavoro prima di tutto di sceneggiatura, bada troppo alle trame, ai meccanismi narrativi, e troppo poco all’espressione della dimensione interiore ottenuta tramite un lavoro sulla regia e la fotografia, fondato sull’empatia, o comunque sulle atmosfere. Sono dei format, spesso asettici. Due film in uscita, entrambi francesi, se ne allontanano, e soprattutto il titolo con cui apriamo questa doppia recensione ne è addirittura l’opposto.
Maigret, che la Adler entertainment ha portato in sala il 15 settembre, segna il ritorno dell’ultrasettantenne e prolifico Patrice Leconte dietro la macchina da presa dopo diversi anni di pausa (Tutti pazzi in casa mia, del 2014, l’ultimo film uscito) con un’opera che rimanda alla prima parte della sua filmografia, a titoli come Il marito della parrucchiera (1990) e al capolavoro L’insolito caso di Mr Hire (1989) per modalità formali, tono, atmosfere e in parte per le tematiche. Tanto più vero per L’insolito caso di Mr Hire, rifacimento di Panico (1946) del grande Julien Duvivier e anch’essi, come questo, adattamenti di un libro di Georges Simenon (Il fidanzamento del signor Hire, del 1933). I due film sono vicini per i temi – le giovani donne assassinate in senso letterale e figurato – oltre che per quest’atmosfera umida, rarefatta, sospesa e ovattata, quasi chiusa in se stessa. Il suo Maigret – nei cui panni ritroviamo un Gerard Depardieu intenso come non lo si vedeva da tempo – non è un film d’atmosfera. È piuttosto un concentrato di atmosfere, un film che sembra quasi essersi fatto organismo biologico delle stesse talmente ne è impregnato.
In un tempo non poi così lontano l’intero cinema era intenso nelle atmosfere, proprio come i luoghi reali, fossero bar, ristoranti, balere, locali notturni, magari fumosi. Ma la quantità di “nebbia” provocata dal fumo delle sigarette sembrava proporzionale all’intensità delle atmosfere di quei luoghi, al loro essere caratteristici. Lo era il cinema d’autore e lo era prima ancora il cinema hollywoodiano, anch’esso all’epoca meno attento all’importanza delle trame: per fare un esempio pensiamo a un piccolo film come Paris blues (1961) di Martin Ritt, incentrato sulla competizione, tanto musicale che amorosa, tra due musicisti jazz di un locale parigino, uno bianco (Paul Newman) e uno nero (Sidney Poitier), impegnati a conquistare due giovani turiste americane. Tolta quest’ossatura di base è essenzialmente basato sui volti, la recitazione, le atmosfere, suscitando e dando preminenza a una forma di poesia di cui la trama era il veicolo, il cavallo di Troia.
La Parigi che fu
Ed era altrettanto intriso di atmosfere il cinema popolare francese – in verità all’epoca forse il più grande in Europa – il quale nutriva l’interiorità dello spettatore contaminandolo, se così si può dire, con narrazioni che veicolavano in qualche modo astrazione invece che punti di riferimento troppo certi ed evidenti. Era un cinema spesso sociale, senza averne però la posa. Da quello di Jean Renoir – autore di almeno due film direttamente espressione della stagione del Fronte popolare – passando appunto per quello di un Julien Duvivier fino al realismo poetico di un Marcel Carné, il quale, spesso in coppia con il poeta Jacques Prévert, produsse alcuni dei capolavori del cinema francese, opere come Amanti perduti (1945), quasi più noto con il suo titolo originale di Les enfants du Paradis, o Il porto delle nebbie (1938), un cinema di cui l’attore Jean Gabin era al contempo emblema per le classi popolari e incarnazione di queste ultime.
Leconte si muove su un equilibrio sottilissimo in un film breve e dalla narrazione secca ma piacevolissima
E dalle nebbie portuali di Carné all’umidità grigia se non plumbea della Senna di Leconte il passo è breve. Il regista, adattando con grande libertà il romanzo di Simenon Maigret e la giovane morta (1954), ci rappresenta una Parigi che fu e insieme atemporale, quasi un mondo a sé, un altro mondo o limbo sospeso, se non una sorta di aldilà. I personaggi sembrano quasi tutti già morti, come se fossero osservati dall’esterno da un visitatore della nostra epoca, pur essendo pieni di vita – le ragazze – o di amore dolente per la vita, anche se non esplicito – Maigret e la moglie, che fa poche apparizioni ma significative.
Leconte si muove su un equilibrio sottilissimo in un film breve e dalla narrazione secca ma piacevolissima. Maigret è il commissario che conosciamo, sobrio e osservatore di ogni minimo dettaglio, poiché la vita, proprio come l’arte, è fatta di dettagli, di sfumature che possono cambiare tutto all’apparenza delle cose.
Abbiamo accennato alle ragazze. Nel film sono molte le giovani donne infatti, quelle della provincia che per decenni, fino agli anni cinquanta, forse sessanta, del secolo scorso giungevano a Parigi, nella grande città, in cerca di fortuna, di una vita diversa e migliore. Forse scaltre, forse ingenue, forse entrambe le cose. Ma quel che è certo è che avevano una possibilità non piccola di finire male, quando non assassinate. Chi ha ucciso la giovane ritrovata morta nella Senna, pugnalata più volte? Con quale dinamica e motivazioni?
L’umidità peggiore
Come nella vicenda del signor Hire, romanzo e film, abbiamo una sorta di narrazione al contrario: la morta magari non è stata assassinata e tuttavia è forse la copertura di qualcosa di losco e alla fine è stata comunque una forma di assassinio. Fotografia delle orge segrete al maschile, dell’ambivalenza al femminile, è nondimeno chiara la condanna della borghesia e dei livelli di laidezza alla quale può arrivare, e così facendo il film finisce in qualche modo per entrare in risonanza con il contemporaneo e il movimento del #Metoo.
E questo malgrado il fatto che siamo in un passato che si appiccica allo spettatore come l’umidità peggiore. Con la differenza che il piacere è invece grande, piacere al quale contribuiscono elementi all’apparenza più semplici, come scorci continui e molto belli, da pittore, di una Parigi ormai della memoria, una memoria che si fa prossima al fantasma quanto al fantomatico, vera e insieme sognata. In questa dimensione duale è fondamentale Depardieu che, pur incarnando un essere estremamente fisico, pare già (pre)destinato alla dissolvenza, affaticato più che dalla vita quotidiana dalla consapevolezza della vita mortificata dagli (in)umani.
Un essere che portandosi dietro l’antico spettro di un lancinante dolore personale, deambula come un fantasma all’interno di questo limbo immerso perennemente nel grigio-azzurrino. La trama è importante, avvincente, ma Leconte la trascende lavorando su una forma filmica manierata talmente all’estremo da creare un mondo “altro”, statico, dove accademia e sperimentazione diventano quasi indistinguibili. Un mondo dominato comunque da ambienti e personaggi intensi, e per certi versi, in questo, speculare a uno scrittore di genere come Simenon che fu rivalutato – anche da personalità come André Gide – proprio perché trascendeva i codici del genere e lavorava magistralmente su ambienti e personaggi forti.
Il dolore di Maigret è sommesso quanto è grande il suo pudore. E nel restituire futuro a una giovane che tenta senza successo di sedurlo ma che al contempo si aggrappa a lui come a un padre, egli diventa finalmente padre, magari per poco, magari già in dissolvenza proprio come lo è l’effimera esistenza umana. In questo film di fantasmi alla ricerca della vita, se questa risorge è forse perché tutto è invertito ma nel modo giusto, perché una volta tanto – al contrario di Hire – alla fine tutto si fa diritto, il rovescio dello storto. E senza retorica. Come Maigret.
All’opposto troviamo un altro film incentrato sulle donne, anche se gli uomini non mancano. Anche qui sono importanti le atmosfere, ma il film è ben calato nel contemporaneo e diretto da una donna, Rebecca Zlotowski, regista francese al suo quinto lungometraggio che firma anche la sceneggiatura. I figli degli altri, che Europictures porta in sala dal 22 settembre e ha presentato quest’anno in concorso a Venezia, fa dell’alterità la normalità. Gli studenti del liceo nel quale insegna la protagonista, la bambina del nuovo compagno, l’essere nubile e l’essere madre, madre adottiva e madre biologica, essere francese bianca e stare con un uomo francese di origini magrebine, l’essere amica di una donna malata madre di una figlia non sua, affrontare il lutto pur sprigionando vita con il massimo di energia. Che fatica comporre tutto questo. È davvero un bel personaggio femminile quello delineato da Zlotowski – come un po’ tutti gli altri – e l’overdose da film di un festival come Venezia ci pare abbia portato a sottovalutarlo.
Segnato da qualche formalismo patinato tipico di un certo cinema francese d’autore, osa però delle soluzioni fuori sincrono rispetto a esso come a tanto cinema contemporaneo. Lungo un importante segmento, il film avvolge, avviluppa lo spettatore con atmosfere forti, luci calde, movimenti di macchina eleganti, panoramiche sui paesaggi, e lo spettatore praticamente non si accorge dei temi importanti, gravi, che esso tratta. A fronte di una trama quasi assente e di una forte dose di astrazione il film scorre piacevole mentre si delineano ambienti e personaggi. Poi la trama emerge, e questo per la protagonista equivale a un brutale trascendere se stessa verso gli altri, attraversando il dolore con il massimo di empatia. Diventando moglie e madre all’ennesima potenza giunge alla grandezza dell’umano tout-court.