L’inno alla libertà di Povere creature!
Far sprigionare la finezza dalla materia grossolana, creare un’opera visionaria e profonda con la piattezza del kitsch patinato, in altre parole ricavare dalla superficie postmoderna la profondità del moderno (magari con qualcosa dell’arcaico), questa è l’ambizione e la scommessa – vinta – del nuovo film di Yorgos Lanthimos, Povere creature!, Leone d’oro all’ultimo festival di Venezia, ora nelle sale cinematografiche. Esprime un femminismo all’ennesima potenza, in modo divertente e soprattutto iconoclasta. E per quanto sia scontato, va detto che ci troviamo davanti a una gran prova degli attori, in cui primeggiano Willem Dafoe e soprattutto Emma Stone, che ha anche coprodotto l’opera.
Il film guadagna molto in lingua originale, ed è assolutamente da vedere sullo schermo grande, il più grande possibile: si è come abbacinati dalla successione di quadri in movimento, in cui la pittura preraffaellita si muta in un’estetica psichedelica.
La pittura preraffaellita è praticamente sinonimo di epoca vittoriana. In quel contesto la sua estetica si voleva liberatoria del corpo della donna, poiché rivendicandone la sua bellezza intrinseca, non doveva più essere oppresso, e quindi deformato, da orrori, anzi da strumenti di tortura medioevali, come il corsetto. I preraffaelliti, con la loro estetica accattivante, seduttrice, forse anche un po’ psichedelica ante litteram, influenzarono non poco l’abbigliamento della società dell’epoca, aiutando le donne a sentirsi almeno più a loro agio e felici nel loro corpo.
Il corpo, la sua deformazione e l’autonomia femminile sono i temi di Povere creature! – tratto dall’omonimo libro di Alasdair Gray – ambientato appunto nel cuore dell’epoca vittoriana. Bella (Emma Stone) è bella come dice il suo nome, datole dal professor Godwin Baxter (Willem Dafoe) che, come indica anche qui il nome, cerca di avere la meglio sulle leggi di dio: recuperando il corpo di una donna incinta che si è suicidata nel Tamigi, a Londra, si è preso l’arbitrio di riportarla in vita. Solo che ha sostituito il cervello di Bella con quello del figlio che aveva in grembo.
In questa evidente variazione del Frankenstein di Mary Shelley, il regista greco riesce a caricare il mostro di grottesco ancora di più rispetto al romanzo di Gray. Nel film il terrore scompare e l’orrore è quello di un grottesco che anima la scienza. Scienza che essendo il prodotto degli esseri umani si crede onnipotente e fa disastri. Tutto è rovesciato: il vero mostro dal volto cucito e ricucito è qui lo scienziato, mentre il presunto mostro creato in laboratorio è invece declinato al femminile, e di una bellezza unica. La protagonista, con il suo cervello da bambino, si sentirà ancora più bella e libera quando sarà nuda, cioè libera da tutte le costrizioni, e non solo dai corsetti.
Nonostante il nuovo cervello, o forse proprio grazie a lui, Bella si comporta in modo sempre più anarcoide. La perdita di inibizioni nell’uso del proprio corpo fa sì che l’emancipazione intellettuale femminile si faccia inscindibile da quella sessuale. Ma per raggiungerla è necessario mandare in cortocircuito tutti gli assunti maschili dominanti nella società. E come fare una rivoluzione del genere, attraverso quale ragionamento complesso, astuto, machiavellico? Nessuno. Semplicemente lasciando andare avanti il proprio sentire naturale.
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Bella parte in quarta qualsiasi cosa faccia. Come un bambino che va a giocare nei campi, tra i rovi, mosso da un desiderio irrefrenabile di movimento, e apprendimento e conoscenza reale del mondo. È evidente l’intenzione, peraltro dichiarata, di riesplorare il concetto di purezza proprio all’infanzia, in cui nulla è ancora contaminato, tracciato – se non predestinato – dall’ambiente familiare o sociale: non a caso ogni capitolo corrisponde a una costrizione da cui la protagonista si libera, perfezionando il suo percorso di conoscenza.
Nell’ibridare il romanzo gotico, quello di formazione e quello femminista con la commedia, creando così un meraviglioso frankenstein delle narrazioni, è rovesciata l’idea dell’infanzia come paradigma della purezza, priva di significati sessuali, essendo il sesso una perversione da cui la donna deve stare lontana, tanto più che ne è il veicolo demoniaco, fin dalla Bibbia. Nel film di Lanthimos la sessualità non è perversa, è piuttosto qualcosa da esplorare in maniera gioiosa e ludica. Così il regista mette in luce l’ipocrisia di un’intera società, facendo tracollare anche l’idea dell’uomo macho e opportunista, tanto più se affarista o bieco militare.
Tutto quel che sembra stabile e assodato se ne va gambe all’aria. Anche la precisione dell’ambientazione vittoriana è mandata in cortocircuito da una sorta di dislocazione “altra” all’interno degli ambienti, e non solo per lo straripare di prismi e deformazioni ottiche. Passando da Londra a Lisbona, e poi ad Alessandria d’Egitto, Marsiglia e Parigi, e infine di nuovo a Londra, vediamo attraverso Bella altrettanti climax, monumentali installazioni che appaiono e scompaiono come in un sogno: il transatlantico da crociera in cui viaggia la protagonista si (con)fonde con un hotel ad Alessandria d’Egitto dove la visione di una povertà abissale la sconvolge, e di nuovo l’hotel con la nave, senza soluzione di continuità: è un unicum, un organismo solo.
I corpi, e di conseguenza la psiche, sono dislocati in maniera del tutto diversa rispetto a quello a cui siamo abituati. Basti pensare agli strani animali che circolano nella casa e nel giardino di Baxter, a metà tra un surrealismo alla Salvador Dalí e un bestiario medioevale. Stesso discorso per i luoghi e le architetture. L’effetto straniante per lo spettatore è forte, e ricorda anche un certo Lars von Trier, in particolare quello degli inizi (L’elemento del crimine, 1984).
Le figure maschili positive comunque ci sono, malgrado errori e contraddizioni: oltre a Max McCandless, lo studente di medicina assistente di Baxter, nonché spasimante di Bella privo di machismo, spicca lo stesso Baxter. Si rifugge così dal manicheismo facile: Bella capisce che anche lui è una vittima e capisce che in realtà le vuole molto bene. Se ormai è una creazione non più sua, è proprio perché l’ha lasciata andare, donandole la possibilità di scegliere. A poco a poco Dafoe conferisce un’umanità sempre maggiore al suo personaggio. Baxter e Bella ricavano un insegnamento importante l’uno dall’altra: capiscono quali sono gli elementi costitutivi che danno grandezza a un essere umano, e come sia importante la libertà totale.