Due opere riuscite e una scelta ardita per Cannes
Il festival di Cannes si apre con due opere riuscite e una scelta ardita. Le deuxième acte – un film breve, di un’ora e venti, fuori concorso – del francese Quentin Dupieux, è stato scelto come apertura del festival. Nella prestigiosa sezione Un certain regard c’è invece il grande I dannati di Roberto Minervini, da oggi nelle sale italiane, che ci porta nella guerra di secessione americana.
Le deuxième acte, tredicesimo lungometraggio del dj, artista e produttore di musica elettronica, è un film divertente, a tratti anche molto, ma pieno di intelligenza e provocazione non gratuita. Ed è pieno di profondità sul senso della vita e delle cose, pur giocando sulla superficialità ludica e il gusto per il trash.
Il gioco non è tanto visivo ma fondato sulla scrittura, nel senso della prosa. Sono fondamentali i dialoghi e di conseguenza l’interpretazione degli attori, la loro capacità di rendere le sfumature. Un exploit più difficile di quanto sembri, soprattutto se come in questo caso il grossolano, il grottesco e il sopra le righe sono lo strumento con cui si rivisitano i cliché sull’egotismo delle star del cinema.
I protagonisti sono tre attori affermati (interpretati da Léa Seydoux, Vincent Lindon, Louis Garrel), e uno in crescita (Raphaël Quenard, vincitore quest’anno del premio per l’attore rivelazione ai premi César), proprio come nella realtà. Ma il film immette del nuovo su una delle tematiche principali e quasi abusate degli ultimi vent’anni: il confine sempre più labile tra realtà e finzione. Gli attori si ritrovano in un ristorante isolato lungo una strada di campagna per pranzare e lavorare insieme.
A fine autunno, inizio o fine inverno poco importa: le star sono immerse in una rarefazione degli spazi che dissolve ogni tentativo di barocco visivo, tipico del cinema di Dupieux, che gira e monta i suoi piccoli film-evento (quantomeno al box office francese) con tempistiche sempre più veloci. Le deuxième acte addirittura in tre mesi. È un’evidente continuazione di Yannick, distribuito in Italia da I wonder pictures, che metteva al centro un’opera pessima di teatro, più esattamente una brutta pièce de Boulevard, come sono chiamate, presa in ostaggio da uno spettatore armato di pistola.
Ma questa rarefazione è una sorta di rappresentazione, scarnificata da ogni orpello, dell’attuale desolazione del mondo. Qui, l’ego dell’attore – sempre mutevole al pari del cinema nel cinema, del film nel film, che provoca la rottura continua e abbastanza vertiginosa della linearità, sia come fiction che come realtà rappresentata – è inserito in un vuoto quasi no future, forse più ancora in una no mans land, di cui la regia trasmette gradualmente l’angoscia pervasiva, malgrado le situazioni e i dialoghi assolutamente risibili.
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È tutto così risibile che questi dialoghi, compresi quelli di litigi furiosi che a volte sconfinano nella violenza fisica, si annullano nel rovesciamento continuo di situazioni e della rappresentazione stessa. Tutti noi, in verità, siamo immersi in questa schizofrenia insensata: quella di una sorta di fine del mondo, mentre continuiamo come se nulla fosse.
L’assenza di senso della gravità nella società è una delle questioni salienti denunciate da un film che fa del metacinema la sua bandiera, anche se in chiave satirica e surreale. L’iconoclastia satirica trasforma tutto in farsa. Proprio come il mondo. Dal 2008 il pianeta sta usando le riserve e ora “le riserve stanno finendo, e le guerre necessarie” si profilano per il loro controllo, dice Lindon, mentre Seydoux si riconosce nell’orchestra del Titanic che suonò ininterrottamente durante l’affondamento. Anche qui: tutto vero, ma nessuna capacità di mutare questo in un messaggio alto e in un’azione concreta, delle star o dell’umanità stessa. Il futuro sembra ingolfato in un caos congenito quanto il cinema.
Oltretutto gli interpreti sono diretti da un signore imbalsamato che comunica loro da un pc con cui non c’è nessuna dialettica e che costruisce imperterrito un film insensato, malgrado le proteste degli attori: in realtà è un’intelligenza artificiale ma, per estensione, è pure la logica del marketing.
Si potrà dire che manca del tutto la reale dimensione intellettuale e umana delle star del film. Tuttavia, in questo caso si satireggiano i cliché sulle star, che contengono indubbiamente parti di verità. Ma poi, in questo film in cui gli attori scelti rappresentano le varie fasi della vita adulta (la giovinezza, ma senza la vera spensieratezza, la maturità, che sembra molto presunta, la vecchiaia, poco sinonimo di saggezza), e quelle delle carriere degli attori – mentre tutti i maschi sono in preda a paure e ossessioni generate dal #Metoo – ecco che nel finale arriva la gravità, quella vera: la morte.
Il brutto film prende chiaramente le parti degli attori ai margini, sia quelle delle comparse sia quelle degli ottimi interpreti relegati in ruoli minori ma spesso fondamentali, e spesso sfiniti, se non distrutti, dalla vita concreta, dal loro inseguire un ruolo da sogno: nella finzione come nella realtà (il bravissimo Manuel Guillot). Ma la cosa riguarda anche le maestranze, simboleggiate, subito prima dei titoli di coda, dall’infinita rotaia necessaria per le carrellate della telecamera. Così facendo il brutto film diventa definitivamente un gran film. Forse un capolavoro, certamente un film-presagio. Perché questo Cannes si apre tra le ombre di nuove rivelazioni su presunti scandali sessuali e di una protesta forte dei precari del cinema, come sottolinea il quotidiano Libération con una prima pagina dedicata al festival e alle questioni che lo agitano.
Un nemico invisibile
Un film che sembra invece fatto della stessa sostanza della gravità delle cose del mondo è I dannati di Roberto Minervini. Anche qui troviamo molta rarefazione, fatta di paesaggi invernali – quelli del Montana – e di astrazione visiva e sonora, interrotta da dialoghi scarni ma essenziali, quanto fondamentali, che fanno raggiungere al film una netta dimensione metafisica, una ricerca spirituale alta che parte però dal vivere più concreto.
Il risultato è un’opera molto lineare, in ogni senso: nella costruzione narrativa quanto nella sua etica umanistica. Minervini prosegue nella sua rilettura degli Stati Uniti, con il suo sguardo sia da interno sia da esterno, di italiano che vive nel paese. Ma dopo opere ambientate nei nostri giorni, sembra voler parlare del passato per meglio affrontare il presente: la guerra di secessione da cui è nata l’America di oggi messa in pericolo da Trump, dai suprematisti, dai gruppi paramilitari. Attraverso attori bravissimi ma non famosi, si alternano dialoghi banali, prosaici, su come prendere nuove posizioni, e interrogazioni continue su dio e il senso delle cose. Famiglie intere arruolate perché convinte del diritto alla libertà dei neri. Fratelli sedicenni convinti della missione, come della giustizia divina, che scoprono l’orrore della guerra. La sincerità o la purezza deturpate.
Tra i tanti grandi film antimilitaristi della storia del cinema, I dannati sembra fratello di un capolavoro assoluto come La grande parata, pellicola muta del 1925 e campione d’incassi sulla grande guerra. King Vidor seguiva tra i boschi l’avanzata delle truppe quasi in stile documentaristico e senza eccessi spettacolari, filmando le truppe che avanzano inesorabili per conquistare le posizioni, nonostante i tanti morti.
Minervini sembra voler estremizzare questo processo di esser dentro alla guerra senza far spettacolo: il nemico spara, uccide, ma è sempre invisibile, non si sa mai quando arriva, e se mai arriva, se sia davvero il nemico, come in una sorta di variante del nemico invisibile del Deserto dei tartari di Buzzati. Ma è un film molto umano, malgrado la disumanità della guerra rappresentata. Magistrale, detto in una parola.