Coppola e il suo folle, smisurato, ultrakitsch Megalopolis
Il momento tanto atteso è arrivato. Al concorso del festival di Cannes è affiorata finalmente la città segretamente costruita da decenni, con stop e ripartenze continue, nell’immensità caotica del mare magnum cinematografico: la Megalopolis di Francis Ford Coppola. Definirlo un film smisurato e folle è un eufemismo. Possiamo dire che quel caos è la sostanza, la materia di cui è fatto, parafrasando Shakespeare, peraltro evocato da questo magma incandescente.
Disuguale e visionario, fa dell’avanguardia con la trasfigurazione e addirittura la sovraesposizione del trash, del pulp, del kitsch, compreso il più detestato dalla critica cinefila: quello plastificato-levigato delle produzioni Disney-Marvel. Ne viene fuori quasi una nuova sostanza: un’ultrakitsch speculare alla materia miracolosa scoperta dal protagonista di questo barocco film-opera.
Costato la cifra vertiginosa di 120 milioni di dollari, di cui cento versati di tasca propria dall’ottantacinquenne cineasta – icona delle utopie cinematografiche della New Hollywood degli anni settanta – e ricavati vendendo parte della sua azienda vinicola, dedicato alla moglie Eleanor, morta a ridosso dell’annuncio della sua selezione in concorso a Cannes, frutto di un lavoro infinito di scrittura che va avanti fin da Apocalypse now (1979), di interruzioni produttive, a cominciare dal flop del musical Un sogno lungo un giorno (1981), quello di Coppola è un poema a favore di tutte le utopie, che prende però la forma iconoclasta di uno sberleffo autoironico enunciato fin dal titolo, ma con tutta la magniloquenza della tradizione dei kolossal hollywoodiani.
La megalopoli del film non rappresenta solo la megalomania del suo protagonista, Cesar Catilina (Adam Driver). L’architetto-urbanista sogna di rivoluzionare il modo di vivere di cittadini sempre più schiavizzati e richiamandosi allo stesso tempo ai diritti concessi agli antichi romani secondo la prerogativa “civis romanus sum” di Cicerone, paradossalmente qui incarnato dal corrotto sindaco onnipotente Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). La megalomania è anche quella dichiarata del suo regista-demiurgo: non per nulla se il futuro erede di Cesare nascerà maschio si chiamerà Francis.
Chiaramente un po’ supereroe senza calzamaglia, Cesar Catilina è capace di fermare il tempo, vera ossessione del film, che si configura qui sempre con la materia. Compresa quella apparente, quella della realtà rimodellata dalle tecnologie digitali che evacuano sempre più le riprese da ambienti reali, un fondamento dei blockbuster per adolescenti: dai film Marvel fino al recente Godzilla e Kong. Il nuovo impero.
Non sorprende: tra i suoi film preferiti degli ultimi anni, il regista della saga del Padrino non cita forse Deadpool (2016)? Ma attenzione: questo supereroe Marvel ha un potenziale in perfetto stile Coppola, a cominciare dal fatto che è quasi una parodia di supereroe.
Il film ha tutto della fiaba idilliaca che si muta in new age dell’utopia, anzi proprio in Utopia con la U maiuscola, quella del celebre romanzo di Thomas More, il quale peraltro rimanda a La repubblica di Platone. Dall’amore totale di Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), la figlia del sindaco, verso il suo Cesare ribelle, fino al fatto, ben più cinefilo, che la new Rome di Megalopolis di Coppola richiama Metropolis di Fritz Lang, non solo nel titolo: come nel capolavoro del cinema espressionista le due fazioni opposte che si sono fatte la guerra alla fine si stringono la mano e collaborano alla rinascita della civiltà.
Quanto all’albero di rimandi storici, letterari e filosofici, se ha lo scheletro tozzo e un po’ ovvio da blockbuster – ma non bisogna dimenticare che l’archetipo è spesso stato enunciato con modalità evidenti – i suoi rami e il suo fogliame si articolano con modalità più complesse e sottili di quanto può sembrare: se fin dall’inizio la res pubblica romana di Coppola allude alla repubblica americana, la discussione se gli Stati Uniti non siano una variazione moderna della repubblica romana anima e talvolta agita da tempo il dibattito su quel paese.
Anche se alla sua indubbia magnificenza ha certo concorso la presenza della grande costumista Milena Canonero, lanciata da Stanley Kubrick con Arancia meccanica (1971) e Barry Lyndon (1975), collaboratrice con Coppola in vari suoi film e, in tempi più recenti, di Wes Anderson, sarà il tempo a dirci se tutto ciò è solo un vano agitarsi di una pseudo nuova forma d’arte, per restare nel linguaggio declamatorio e un po’ altisonante del film, oppure una visione imperfetta ma grandiosa che vede lontano.
Coppola sul momento ha spesso deluso le aspettative: Apocalypse now non piacque a chi aveva amato Il padrino (1972). E qui siamo indubbiamente più dalle parti del Coppola di Rusty il selvaggio (1983) o Un sogno lungo un giorno.
Intanto, già si agitano nella mente immagini mai viste di un arcaismo primordiale: il sogno-presagio di una nuvola da cui nel cielo notturno fuoriesce una mano, oppure, a più riprese, ombre longilinee danzanti sulle mura della città: le ombre della caverna di Platone si confondono con le prime forme di cinema – che Coppola aveva già messo al centro della rappresentazione in Dracula di Bram Stoker (1992) –, dal teatro delle ombre cinesi alla lanterna magica.
Del resto cosa dice Julia all’amato Cesare, che ne sonda e comprende lo spirito paradossale meglio di tutti? “Sei un uomo del futuro posseduto dal passato”.
Sorprese
Rimane per forza di cose schiacciata, ma anche meritevole di attenzione, Diamant brut (Diamante grezzo), opera d’esordio della regista francese Agathe Riedinger, incentrata su una ragazza di neanche vent’anni di origini maghrebine. Interpretata in modo notevole dalla quasi sconosciuta Malou Khebizi, si ribella ai ruoli che le sono assegnati, innanzitutto dalla madre.
Può richiamare in parte Fish tank della regista britannica Andrea Arnold – peraltro anche lei in concorso con Bird – ma al contrario di quest’ultimo, resta per intero nella contrapposizione tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzi. Racconta il mondo dei francesi maghrebini, delinea con grande delicatezza e senza cliché gli adolescenti maschi, tra cui il bel personaggio che si lega molto alla protagonista, proteggendola anche da se stessa. In particolare verso la sua ossessione per i reality show, a cui vuole partecipare a tutti i costi.
Riesce a fare un provino, dove tra le righe le si fa capire quale sarà la logica, non dichiarata, di sfruttamento del suo corpo. Assuefatta al meccanismo dei social network – con in testa i tanti follower che la seguono – arriverà a martoriare il suo corpo autotatuandosi: lo spettatore assiste alla rappresentazione implacabile di una moderna forma di alienazione giovanile. Fine e delicata, priva di sguardo giudicante, una nuova autrice è nata.
The girl with the needle, del regista svedese Magnus von Horn – già vincitore nel 2015 della Quinzaine des réalisateurs – è disuguale: parti della rappresentazione e la fotografia in bianco e nero, per quanto molto curata, risultano a tratti algide e indigeste. Però il racconto storico ispirato alla prima serial killer donna, che tra il 1913 e il 1920 uccise una lunga serie di bambini nati fuori dal matrimonio, è molto ben narrato, avvincente, dalle molte inquadrature sorprendenti e, a tratti, anche magiche.
Nella rappresentazione che ne dà il regista, il suo appare un gesto ribelle e di disperazione verso una condizione di predestinazione sociale, dei bambini come delle donne, appartenenti a ceti poveri.
Ma è dalle sezioni parallele che arrivano sorprese, cioè le sezioni che nutrono i concorsi del futuro. In particolare la Settimana della critica, in cui su tutti spicca il film più compiuto visto finora: il taiwanese Locust, dell’esordiente Keff, film umanista di denuncia sociale e filosofico incentrato su giovani gangster di un’isola che si vede senza futuro, anche per l’aggressività crescente del governo cinese.