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Registi dimenticati e dive eterne al festival del Cinema ritrovato

Marocco di Josef von Sternberg in piazza Maggiore, Bologna, 19 giugno 2024. (Margherita Caprilli)

Dopo Hugo Fregonese, di origine argentina, e Robert Mamoulian, di origine armena, c’è un nuovo grande regista hollywoodiano sottovalutato da riscoprire: Anatole Litvak, nato in Ucraina a trasferitosi negli Stati Uniti nel 1937. Ma quest’anno, al festival del Cinema ritrovato di Bologna, a ricordarci ulteriormente che la Hollywood della grande epoca classica fu realmente cosmopolita c’è una figura unica come Marlene Dietrich, star hollywoodiana fuori dagli schemi, che domina la manifestazione fin dal manifesto.

Sono queste forse le tre grandi locomotive della nuova edizione del festival, che si svolge dal 22 al 30 giugno, con tante proiezioni, a cominciare da quelle nella cornice magica di piazza Maggiore. Ma non mancano le riscoperte, come quella di Sergej Paradžanov, grande regista armeno nato in Georgia, vero poeta e spirito libero, perseguitato dal regime sovietico con il pretesto della sua omosessualità, osteggiato in realtà perché politicamente scomodo.

Inoltre, c’è l’ormai consueta rassegna dedicata a un maestro del cinema giapponese più o meno misconosciuto. Quest’anno tocca a Kōzaburō Yoshimura (1911-2000). E poi ancora le tante (ri)scoperte dalle latitudini più lontane della straordinaria sezione Cinema libero, i quasi infiniti recuperi del cinema del muto e dei filmati storici di repertorio nelle sale della Cineteca e ovviamente i tanti classici restaurati, spesso dalla stessa Cineteca, di Hollywood e non solo, del muto e del sonoro, che spesso sembrano nuovi film. Oppure semplicemente ritrovati, perché finora ritenuti in parte o del tutto perduti.

Per questa edizione, oltre ai consueti tre cinema, alle sale della Cineteca e ovviamente a Piazza Maggiore, il festival si arricchisce di un nuovo spazio importante, quello del Modernissimo. Situato sui lati di piazza Maggiore, ha riaperto pochi mesi fa, completamente ristrutturato e diretto dalla stessa Cineteca. Lì si potrà assistere su grande schermo a uno dei titoli restaurati di maggiore richiamo, Intrigo internazionale (1959) di Alfred Hitchcock, con gli indimenticabili volteggi aerei schivati eroicamente da Cary Grant. Ma ci sarà anche Carrie (1976) di Brian De Palma.

Tuttavia, l’evento principale al Modernissimo, ma anche del festival, sarà la proiezione delle prime tre ore e venti del Napoléon vu par Abel Gance (1927), che ha già aperto Cannes classics all’ultimo Cannes, opera potente e visionaria del muto, di quelle capaci di scuotere nel profondo l’inconscio e di generare vibrazioni intense, e non solo grazie alla grande quantità di innovazioni tecnico-linguistiche, ancora oggi sorprendenti, ma anche per via delle immagini apparentemente più semplici e meno mobili, grazie a un lavoro unico sulle inquadrature, sui volti, sugli sguardi, con quelli di Albert Dieudonné che nella parte di Napoleone restano uno dei vertici più alti raggiunti dalla storia del cinema, non solo del muto.

In piazza Maggiore si potranno rivedere film epici fondamentali, così come opere importanti sul rapporto dell’essere umano con gli spazi in contesti socioculturali specifici, che ne determinano le psicologie, pellicole di svolta nella storia del cinema come Sentieri selvaggi (1956) di John Ford, introdotto dall’inedita coppia Wim Wenders e Alexander Payne; oppure le oltre sette ore di I sette samurai di Akira Kurosawa, introdotto dal regista Pietro Marcello insieme all’archivista giapponese Shion Komatsu. Oppure Palme d’oro del festival di Cannes rimaste leggendarie come Paris Texas (1984) di Wim Wenders, presentato dallo stesso regista.

Come l’anno scorso in piazza non mancheranno proiezioni di grandi opere del muto accompagnate dall’orchestra, che spesso rappresentano alcuni dei momenti più emozionanti del festival bolognese, e forse sotto questo aspetto l’evento più atteso è la proiezione di Il vento (1928) dello svedese Victor Sjöström, altro esempio di prim’ordine di un’esplorazione dello spazio interconnessa alla psicologia umana.

Marlene Dietrich è stata una donna complessa, colta e intelligente. Di un anticonformismo radicale, riuscì fin da subito in un’impresa non da poco: quella d’imporre per contratto la scelta dei registi agli studios che la volevano grazie all’enorme successo di pubblico e critica raggiunto con L’angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg, dopo il quale abbandonò una Germania che cominciava a scivolare nell’abisso nazista.

Alla Paramount impose proprio Sternberg, altro personaggio coltissimo e dai molti talenti, che definì per lei quell’immagine, insieme al regista e direttore della fotografia Rudolph Maté, fatta di sensualità provocatoria e insieme raffinata, perfetta per le femme fatales da lei interpretate – ma sarebbe meglio dire incarnate – in contrapposizione all’altra grande diva dell’epoca, Greta Garbo, icona della Mgm.

Grande cantante, la sua versione inglese di Lili Marleen durante la seconda guerra mondiale diventò quasi il suo marchio di fabbrica quando andò in tournée fra le truppe al fronte.

Il festival vuole esplorare esplicitamente questa sua immagine, anche attraverso un’esposizione ad hoc, come rivelazione di uno spirito imprendibile e misterioso, nella vita come sullo schermo: bisessuale, amante del travestimento ambiguo, libera in tutto ma sempre nettamente dalla parte della democrazia e dei diritti di tutti – oltre che ovviamente impareggiabile interprete – Dietrich è più che mai da riscoprire su grande schermo a cominciare da un grande classico come Marocco (1930), il suo primo film americano, che contiene anche uno dei primi baci omosessuali della storia del cinema, proiettato già nel prefestival in piazza Maggiore, ma che si potrà rivedere anche in sala.

La rassegna Dark heimat, dedicata al cinema tedesco e austriaco della fine degli anni quaranta e dei primi anni cinquanta, e incentrato sulle difficoltà del presente in lotta con un doloroso passato recente, amplifica e completa la retrospettiva su Dietrich al pari di quella incentrata sulla riscoperta della filmografia della regista ed attrice francese Delphine Seyrig: nel caso di Seyrig la militanza femminista era netta, ma è evidente la vicinanza tra due donne di epoche diverse accomunate da una indipendenza radicale.

La rassegna dedicata al cinema di Pietro Germi celebra invece un attore e autore trasversale ai più disparati generi cinematografici, nonché del primo film mai girato sulla mafia e, soprattutto, uno dei registi più importanti della commedia all’italiana, a cominciare da un classico imprescindibile come Divorzio all’italiana (1961), premiato a Cannes nel 1962 e candidato a tre Oscar, senza dimenticare altri capolavori come Un maledetto imbroglio (1959), dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e prima ancora Il ferroviere (1956), opera di grande sensibilità e umanità nel delineare un contesto proletario.

La sezione Cinema libero è dedicata alle cinematografie geograficamente lontane, per lo più non dominanti al botteghino. Quest’anno, spaziando dalle periferie di Dakar alle parti più interne di Manila, passando per villaggi in Iran, Siria e Navarra, e grazie alle opere di autori e autrici come Mohammad Malas, Marva Nabili, grandi registi come il filippino Lino Brocka, il senegalese Ousmane Sembène e la francese Sarah Maldoror, che è anche un’attivista, a essere raccontati saranno “la sottomissione femminile all’interno della società patriarcale, sia in senso letterale che come allegoria di un regime totalitario; il percorso a ritroso della memoria familiare che diventa racconto politico collettivo; la condanna della repressione coloniale e la celebrazione di arte e cultura autoctone come elemento di resistenza e liberazione”.

Questa sezione è un vero viaggio di conoscenza, non solo cinematografico.

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