Il fantastico e la realtà si incontrano a Venezia
Lo spiritello porcello è ancora in ottima forma. Il doppio ritorno di un personaggio divenuto di culto nell’immaginario cinematografico e di un regista che lanciandolo agli inizi della sua carriera ha cominciato una lunga sequenza di personaggi esemplari nella loro atipicità, spesso con film capolavoro: Tim Burton è tornato al Lido fuori concorso con il seguito di Beetlejuice – Spiritello porcello (1988). In attesa di scoprire nel concorso le nuove opere di autori di richiamo come Pedro Almodóvar, Pablo Larraín, Walter Salles o Luca Guadagnino, e i titoli del cinema italiano – sia chiaro, in rinascita in questi ultimi anni – quest’anno inflazionati ancor più del solito, il Fuori concorso ci regala anche un notevole documentario complessivamente degno della tradizione veneziana inaugurata dall’attuale direttore Alberto Barbera: Separated, del grande documentarista statunitense Errol Morris. In appena novanta minuti sono rivelate verità sconvolgenti sulla politica di separazione delle famiglie di migranti praticata dell’amministrazione Trump e in parte prolungata da Joe Biden.
Ma cominciamo da Beetlejuice Beetlejuice, in sala dal 5 settembre per WarnerBros. Senza essere un nuovo capolavoro, il poeta dei marginali della zona morta, capace di unire come pochi la dimensione del fantastico con il grottesco, dimostra qui una rinnovata freschezza: il film è vivace, festoso, giocoso, inventivo e irriverente in maniera non scontata. Anche grazie al lavoro di scrittura di Alfred Gough e Miles Millar, sceneggiatori della serie Mercoledì, a un bel cast (Michael Keaton, Winona Ryder, Willem Dafoe, Monica Bellucci) e, come ha detto lo stesso Burton, a una buona dose d’improvvisazione e tanti effetti speciali non digitali.
Questo secondo capitolo è un rovesciamento di tutto – in parte anche del primo – per meglio mantenere, paradossalmente, la coerenza e la purezza iconoclasta originaria.
Lydia (Winona Ryder) ovviamente non è più la ragazzina dark di un tempo, ma è diventata una donna matura con figlia, sul punto di sposare il compagno-producer del programma sul soprannaturale che conduce per la televisione. Ma strani fenomeni si manifestano fin da subito in casa e si propagano anche nello studio televisivo. Beetlejuice torna a manifestarsi trascinando Lydia in un nuovo vortice di scenette sempre sul crinale tra due realtà, quella dei vivi e quella dei morti. Ma è tutto così isterico, anzi survoltato, che al funerale iniziale, quello del marito di lei affogato in mare, si sovrappone un matrimonio. E qui sono i morti che vengono assassinati da una strana entità, diventando così ancora più morti. Tutto è assurdo, ma è un assurdo surreale come illuminato da scariche elettriche continue, survoltato appunto.
E se tutte le figure maschili, giovani e non giovani, si rivelano alla lunga manipolatrici e dedite all’inganno, tranne quelle morte o gli ispettori di polizia che cercano di mantenere l’ordine nel mondo della morte (Willem Dafoe, ormai onnipresente), è perché il mondo adulto di oggi è più orrorifico di quello dei gothic monsters: i mostri veri sono ormai quelli del mondo reale. Astrid, la figlia adolescente di Lydia, è all’opposto della madre: ultrascettica e razionale. E mettendo in pratica un meccanismo tipico dell’adolescenza, quello della contestazione, è l’incarnazione e insieme il vero vettore di questo rovesciamento continuo di tutti i punti di riferimento consolidati di un universo strutturalmente instabile.
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Ma quel che ci è piaciuto forse di più è la dimensione iconica. Il mondo dei morti è un mondo congelato, ripiegato su se stesso, gli ambienti hanno qualcosa di terribilmente finto, richiamando le rappresentazioni praticate da una parte dell’arte contemporanea che gioca sugli stereotipi e gli archetipi, sulle immagini più emblematiche, così ripetute, così riciclate incessantemente da essersi consumate fino a svuotarsi di qualsiasi dimensione interiore: e si rivelano ideali installazioni messe in successione, in cui si muovono, trasfigurati, dei personaggi appartenenti al folklore del fantastico, ma privati di ogni senso profondo, dei surrogati e dei simulacri del terrore che fu, prima che tutto fosse divorato, immaginario compreso.
Non è la prima volta che Burton mette in scena l’arte contemporanea: per esempio in Batman (1989) lo sberleffo surreal-dadaista del Joker sulla sacralità dell’arte, nella fattispecie la pop art, era totale. Nulla di stupefacente: in fondo era lui stesso l’incarnazione vivente di una pop art critica verso una società consumistica che svuota di senso le immagini, le immobilizza per sempre nell’eterna ripetizione, e di cui era paradigmatico il suo sorriso-ghigno, congelato per sempre sul volto.
Di questa meccanica ottusa propugnata dal marketing – come nel film Ricomincio da capo di Harold Ramis, dove tutto è congelato in una sorta di eterno Giorno della marmotta , di questa autodivorazione, di questo autocannibalismo delle forme anche Burton è in qualche modo partecipe, poiché anche lui ha ceduto all’ideologia dei sequel, imperante in una Hollywood incapace di produrre nuove idee per nuove saghe, nuovi prototipi dell’immaginario. Questo perché l’industria cinematografica statunitense ha quasi del tutto bloccato la sperimentazione rispetto al suo passato glorioso. Nonostante questo il film è ispirato. Un corpo vivo.
Incentrato su “uno dei capitoli più oscuri della storia degli Stati Uniti”, Errol Morris questa volta racconta uno dei grandi drammi del nostro tempo, uno dei principali horror a cui l’attualità del mondo reale del passato recente ci ha messo a confronto e che rischia di tornare: le separazioni di massa dei figli di migranti dai genitori, soprattutto per quelli provenienti dall’America centrale. Coprodotto con il Messico e Nbc news, Separated ha come base il libro d’inchiesta del giornalista della Nbc Jacob Soboroff, ma le interviste a lui sono integrate con quelle di molti funzionari pubblici del governo federale. La propaganda di Trump era fondata sul ritorno delle frontiere che conferiscono identità a una nazione e ne garantiscono la sicurezza interna, perché dissuaderebbero a venire sul territorio statunitense. Di conseguenza si è autorizzati a distruggere famiglie poverissime, a produrre dei traumi devastanti in esseri umani in formazione, col rischio di ritrovarsi poi anche con nuovi marginali, asociali o perfino psicopatici. Ma, proprio come già avviene con la pena di morte, la dissuasione non funziona e produce solo una catena infinita di crudeltà, quasi di sadismo.
Pian piano emerge una verità devastante: quella che si credeva propaganda corrispondeva ai dati reali, ma le istituzioni trumpiane manipolavano le altre e i mezzi d’informazione. Nei documenti al Congresso, i consiglieri presidenziali e soprattutto i responsabili del dipartimento per la sicurezza interna ammettevano poche centinaia di casi di ragazzini o bambini piccoli strappati ai genitori, mentre la realtà era di alcune migliaia. La propaganda sopra le righe era la realtà. Emergono due figure, due funzionari pubblici federali all’antitesi, due eroi opposti come in un film della Hollywood classica: Scott Lloyd, che in quanto responsabile dell’ufficio per il reinsediamento dei rifugiati, sapendo che si poteva essere rimossi facilmente, finì per accettare tutte le direttive. La sua pare essere identificabile con una forma di collaborazionismo quasi serena e tranquilla. E poi c’è Jonathan White, che si opporrà a quelle regole con risultati molto concreti, riuscendo a ricongiungere oltre duemila famiglie, con l’aiuto di sentenze emesse da giudici federali, anche repubblicani, in cui queste direttive erano definite come crudeli, inumane e anticostituzionali. Separated, nella sua oscurità, fa emergere con forza la luce del pubblico servizio.