Quattro film visti a Venezia di cui si continuerà a parlare
La prima metà del Concorso di questa mostra del cinema di Venezia ci ha regalato qualche ottimo o gran film, anche se nessun capolavoro: da Gianni Amelio a Justin Kurzel, passando per Walter Salles e Maura Delpero, potremmo dire che il tema di fondo è stata la guerra nella sue varie forme: da quella del 1914-1918 (con l’annessa pandemia di influenza spagnola) al secondo conflitto mondiale, dal terrorismo ai colpi di stato militari.
Tuttavia, nei film del Concorso la guerra intesa come conflitto bellico resta fuori campo. E comunque, anche nei titoli non di carattere bellico, a esser centrale non è solo la sopravvivenza degli esseri umani ma ancor più la sopravvivenza delle relazioni umane. Infine, sono tutti film che si confrontano con la memoria, recente o meno recente. Ma, anche qui, il presente è solo apparentemente fuori campo, perché tutti questi titoli entrano fortemente in relazione con le grandi questioni che dominano questi ultimi anni, se non con l’attualità stretta.
Gianni Amelio con Campo di battaglia – in sala dal 5 settembre e coprodotto tra gli altri con la Kavac Film di Marco Bellocchio – realizza uno dei film più belli della sua carriera. Anche se non siamo particolarmente amanti del suo cinema, soprattutto quello più recente, l’opera ha un suo punto di forza: lo sguardo laterale sulla prima guerra mondiale. Uno sguardo anche duplice, perché da un lato la vicenda si svolge nel 1918, quando il conflitto sta finendo – anche se velocemente si profila un altro orrore, quello dell’influenza spagnola – e dall’altro è essenzialmente ambientata nelle infermerie, oppure in parte minore nei villaggi rurali e nelle ville dell’aristocrazia italiana.
Liberamente ispirato a La sfida di Carlo Patriarca, scritto da Amelio con Alberto Taraglio, mette la questione della coscienza al centro di tutto: la coscienza come essenza dell’essere umano che riacquisisce così il suo senso quando tutto sembra perderlo. È un colossale scontro dell’animo e tra gli animi, quello che rappresenta Amelio, devastante e dilaniante. L’animo è quello di un giovane ufficiale medico che spinge molti ragazzi che ha in cura a farsi danni più gravi affinché possa rimandarli a casa e togliergli da questa carneficina per lui indegna e mossa sopra le loro teste.
Gli animi con cui si scontra sono invece quelli di un collega che proviene da una grande famiglia dell’alta borghesia e ha opinioni e comportamenti opposti; e quello di un’infermiera, volontaria della Croce rossa e amica di entrambi fin dai tempi dell’università. Anche lei è divisa tra il rispetto della legalità e le sofferenze dei soldati, devastata dal fatto che, se scoperti a mentire, saranno fucilati e marchiati dall’infamia. Ma chi insegue il falso medico persegue forse una verità umana e interiore più grande, vasta, ultima. E forse per questo, lui che è perso nella babele di dialetti che Amelio fonde con quella del dolore, è il medico vero, quello che va oltre, che capisce anche se non capisce quanto dicono, in altre parole è colui che ausculta il loro dolore fino allo sfinimento.
Alessandro Borghi porta a segno la sua migliore interpretazione e il film – malgrado forse qualche caduta nei dialoghi, a tratti un po’ scontati e di maniera – nell’insieme è di notevole finezza. I luoghi, molto vari, diurni e notturni, sono ripresi con grande sensibilità, anche pittorica.
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La giovane cineasta Maura Delpero con Vermiglio scrive e dirige il suo secondo lungometraggio dopo l’eccellente Maternal, presentato in concorso a Locarno e premiato. Ambientato nel villaggio di montagna del Trentino che dà il nome al film, dedicato al padre che ci è nato e recentemente morto, racconta la seconda guerra mondiale e il mondo degli antenati della cineasta di Bolzano, anche lei con un’angolazione laterale: siamo nel 1944, e se la guerra finisce per gli altri, l’arrivo di un soldato rifugiato devasta la comunità dall’interno, mentre la lontana e assolata Sicilia rappresenta una sorta di effimero e ingannevole altrove rispetto alle nevi del Trentino.
Ovviamente la comunità, e in particolare quella delle donne, è al centro del film, con la trasformazione del corpo di una ragazza quando la vita germoglia. La maternità e le tensioni con gli altri sono pure loro centrali. Anche se c’è dietro un enorme lavoro figurativo e antropologico, recitato in dialetto e sottotitolato, forse qui il principale personaggio femminile fatica un po’ a trasformarsi in vettore della vicenda rispetto al film precedente e a incollare alla poltrona lo spettatore comune. Tuttavia, il film ha una notevole forza espressiva, incanta, suggestiona e interroga nel profondo, rivelando la mano di una cineasta di primo piano.
Justin Kurzel, famoso scenografo australiano al suo terzo lungometraggio, continua a passare in rassegna eventi reali, in cui una singola psiche malata provoca stragi che sembrano essere il prodotto di un malessere collettivo. Ma questa volta lascia l’Australia per gli Stati Uniti del biennio 1983-1984, quando un’incredibile sequenza di rapine in banca e assalti a furgoni portavalori perfettamente organizzati, e la stampa massiccia di banconote false, fecero letteralmente impazzire le forze dell’ordine statali e federali.
Ben presto l’intuito di un cane sciolto dell’Fbi (Jude Law), di stanza negli uffici della cittadina di Coeur d’Alene, con l’aiuto di un giovane poliziotto (sposato con una nativa, particolare significativo) spinge i colleghi a scoprire che dietro tutto c’è The order, ramo armato delle organizzazioni suprematiste di estrema destra che dà il titolo al film. In pratica, un gruppo terroristico che ha il culto per un romanzo distopico, The Turner diaries, scritto nel 1978 da William Luther Pierce, fondatore della National alliance, altro movimento neonazista. In questo romanzo si ipotizza una colossale insurrezione in sei atti: il sesto atto è l’attacco al campidoglio e la presa di Washington. Diverse copie del libro sono state trovate il 6 gennaio 2021, quando il congresso statunitense è stato davvero preso di mira. Inoltre, il testo è ritenuto alla base di tutte le azioni terroristiche dell’ultradestra come, nel 1995, l’attentato di Oklahoma City.
Kurzel realizza un film di spessore, nell’insieme non didascalico, che ha qualcosa della New Hollywood degli anni settanta: si delinea una splendida triangolazione di personaggi atipici, fuori dagli schemi, che si confronta. Come messe allo specchio, sono tre anime delle molteplici forme del romanticismo americano, talvolta (molto) distorto: l’agente solitario dell’Fbi, il poliziotto autonomo, il giovane, carismatico ed implacabile capo di The order.
Anche il brasiliano Walter Salles ha portato a Venezia uno dei migliori film della sua carriera. Con Ainda estou aqui (Sono ancora qui), Salles tocca ricordi personali raccontando la dittatura brasiliana attraverso il prisma dei Paiva, una famiglia di suoi amici, il cui padre finirà nella lista dei desaparecidos. Salles afferma che amava tanto anche il loro appartamento, filmato a lungo, vuoto, durante i titoli di coda.
Questo splendido film, malgrado tutto pieno di vita grazie alla vasta e gioiosa famiglia qui raccontata, è in fondo un’opera di fantasmi: se la protagonista, la madre dei ragazzi e moglie del desaparecido, oggi scomparsa, domina con la sua presenza forte l’intero film, Salles è bravo a farci dimenticare che è un film di vestigia, dandogli la forza del presente. Affresco sensibile della memoria concepito durante l’epoca neogolpista di Bolsonaro, è un monito anche per l’Europa, per noi italiani.