Il capolavoro di Almodóvar in una mostra di Venezia più debole
Alla mostra del cinema di Venezia ci sono stati due capolavori assoluti e un grande documentario d’autore: La stanza accanto di Pedro Almodóvar, premiato con il Leone d’oro; Joker. Folie à deux di Todd Phillips; e Youth. Homecoming di Wang Bing. Si sono visti anche buoni e ottimi film, e altri mediocri, ma nell’insieme è stato un concorso meno forte rispetto ad altre edizioni, anche se dignitoso. Soprattutto c’è stata una selezione, per il Concorso, ma anche per altre sezioni, troppo filoccidentale, con troppo cinema italiano (tra cui cinque film in Concorso) e troppo poco soddisfacente.
Ma cominciamo con il vincitore del Leone d’oro (nelle sale dal 5 dicembre). È la seconda produzione Warner Bros di Almodóvar dopo Madres paralelas (2021), la prima in lingua inglese, ambientata negli Stati Uniti e con attrici e attori angloamericani (Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro). Qui al regista spagnolo riesce il miracolo di realizzare un’opera come se fosse sempre stato americano, e di una perfezione assoluta.
Fa concorrenza a Todd Haynes, ma senza fargli il verso, realizzando un metacinema con sentimento attraverso i riferimenti a Hitchcock e Douglas Sirk – quest’ultimo rivisitato da Haynes in Lontano dal paradiso (2002) – e sfruttando la presenza di un’attrice feticcio del cinema di Haynes come Julianne Moore. Il tema dell’eutanasia è solo l’importante primo livello di un’opera profonda e caleidoscopio, che parla delle relazioni umane giunte al loro ultimo stadio, al pari dell’umanità stessa, come già suggerito dal regista nelle sue dichiarazioni a Venezia (“Il film parla di una donna morente in un mondo agonizzante)”.
Ma la storia della giornalista di guerra (Swinton) che in lotta con il cancro porta in un cottage incantevole la vecchia amica scrittrice (Moore), chiedendole aiuto per farla morire illegalmente, è assolutamente magistrale per come dall’intimo, anzi dal massimo della dimensione intima, passa all’universale. E arriva poi alla denuncia politica, in un batter d’occhio e con il massimo della naturalezza, come se fosse davvero la stanza accanto: l’eutanasia, il mondo sempre più immerso in nuove guerre, forse anche nucleari, la quasi apocalisse climatica, il liberismo forsennato che ne è la causa anzi, stando al film, il complice principale.
Senza alcuna pesantezza didascalica, ridondanza, enfasi retorica, ma al contrario con grande dolcezza e delicatezza, per certi aspetti quasi sussurrando, con un senso dei colori e della composizione dell’immagine elegante e a tratti abbagliante, Almodóvar ci accompagna nell’anticamera della morte del genere umano con la forza dirompente del desiderio di vita, motore psichico degli esseri umani, e della forza della vita, motore fisico di tutti gli esseri viventi. La quale non ci pensa proprio ad arrendersi.
Avrebbe meritato il Leone d’oro anche il secondo capitolo di Joker. Non meno magistrale del primo, forse un po’ meno spettacolare, ma ancor più profondo e disturbante, se ci si riflette sopra. Idealmente, è quasi il prosieguo punk, sporco e disperato del film di Almodóvar, ulteriore stanza accanto che racchiude relazioni umane specchio dell’umanità, entrambe giunte all’ultima corsa: del resto sarà ancora la Warner Bros a portarlo in sala (dal 2 ottobre).
È anche una delle migliori rappresentazioni mai viste sulla fine delle mitologie del sistema dei generi, nella fattispecie quella dei supereroi, anche se Joker non ha superpoteri ed è il cattivo per antonomasia dell’infinita saga di Batman. Ma, contrariamente al film di Almodóvar, qui l’empatia umana è a senso unico: il vecchio clown, smunto, rinchiuso nel manicomio criminale di Arkham in attesa di processo, crede di aver trovato l’amore. Ma il proletario deturpato dalla vita, violentato da tutto e tutti fin dall’infanzia, forse non ha davvero trovato, come crede, la sua metà, il suo specchio: doppiamente prigioniero, della struttura in cui è internato e della sua maschera di psicopatico, ora sogna semplicemente la bellezza della vita; la figlia viziata dei ricchi, dell’alta società, sogna invece la folie à deux mentre lui, che nemmeno riesce più a dire le sue mediocri barzellette di pagliaccio fallito e incattivito, che ormai è il Joker solo negli show musicali della fantasia, sogna invece la normalité à deux.
Mentre tutti si odiano, mossi da una rabbia tossica che mina il futuro del genere umano, per lui, che nel film precedente ha praticato l’overdose dell’omicidio come gioco sovversivo per spingere all’emulazione gli altri, il gesto di sovversione – che nessuno capisce – è ora il contrario di tutto quello che è stato: si è mutato nell’ultimo essere umano sulla terra. All’opposto del film di Almodovar, la solitudine è la più totale: perché dietro le apparenze la stanza accanto è vuota, e fin dall’inizio.
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Il cinese Wang Bing è un maestro del documentario d’autore, e sebbene in Italia sia quasi sconosciuto è considerato uno degli autori più significativi del cinema contemporaneo. Anche lui in fondo racconta la condizione umana, ma da sempre colta nella realtà concreta: in questo caso è il terzo capitolo di un lungo viaggio nell’immensità della Cina, tra le condizioni di vita e lavorative dei giovani operai dell’industria tessile, ragazzi che tornano a casa per il capodanno.
Lavorano una quantità di ore disumana, ma sono dotati di una carica vitale e di un senso dell’umorismo che lasciano a bocca aperta. Denuncia ma anche ritratto di grande umanità, questo Youth. Homecoming della durata di due ore e mezza sarà distribuito dalla Lucky Red, che speriamo porti in sala anche le altre due parti di questo incredibile trittico, presentate rispettivamente a Cannes nel 2023 e a Locarno nel 2024.
Veniamo al resto del palmarès. Il Leone d’argento a Vermiglio, opera seconda di Maura Delpero che la Lucky Red porterà in sala dal 18 settembre, carica forse di molte attese lo spettatore comune, ma dà anche grande visibilità a un’opera di valore, una delle poche veramente sperimentali della selezione ufficiale – insieme al documentario d’autore Bestiari, erbari, lapidari di Massimo d’Anolfi e Martina Parenti, un vero capolavoro – e che, essendo girata in dialetto, non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto dei fondi pubblici, come sottolineato dalla regista durante la premiazione. E quindi molto bene ha fatto Moretti a lanciare dal palco un appello contro la nuova legge del cinema che, se non sarà cambiata, praticamente non permetterà di produrre più molto.
Il premio per la regia a The brutalist dell’inglese Brady Corbet va a un’opera fredda, ridondante, con una sola sequenza magica: il ballo notturno nelle cave di marmo di Massa e Carrara. È il ritratto di un capitalista manipolatore che altri hanno fatto molto meglio (Il petroliere di Paul Thomas Anderson, ma non solo). Il premio lo avrebbe meritato invece Walter Salles per il suo bel ritratto familiare ambientato durante la dittatura brasiliana, Ainda estou aqui, premiato invece per la sceneggiatura. Ridicola la Coppa Volpi a Nicole Kidman per l’inesistente Babygirl: dà l’impressione che Hollywood vada premiata per forza.
Il premio speciale della giuria ad April della georgiana Dea Kulumbegashvili va a un’opera coraggiosa, anche se un po’ difficile, sul diritto all’aborto, caratterizzata da un gran lavoro dal punto di vista visivo, a tratti visionario, potente.
La Coppa Volpi a Vincent Lindon per il bel Jouer avec le feu delle sorelle Delphine e Muriel Coulin (in sala grazie alla I Wonder Pictures), dà finalmente visibilità a un ottimo interprete del cinema francese. Il premio Marcello Mastroianni all’attore o attrice emergente è andato a Paul Kircher, giovane straordinario protagonista di Leurs enfants après eux, dei fratelli Ludovic e Zoran Boukherma. Un altro ritratto, come Jouer avec le feu, dell’alienazione giovanile nella regione francese della Lorena, ma ancor più bello.