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Uno dei più grandi film degli ultimi anni

La storia di Souleymane. (Academy Two)

È nelle sale uno dei più grandi film degli ultimi anni sulle condizioni di vita delle persone migranti. In appena novanta minuti La storia di Souleymane del regista francese Boris Lojkine – presentato quest’anno a Cannes nella sezione Un certain regard, dove ha vinto il premio della giuria e il premio per il miglior attore – ci porta nel quotidiano di un guineano a Parigi con un’empatia e un’efficacia rare, senza cadere nel voyeurismo o nel pietismo cinematografico. Come All we imagine as light – Amore a Mumbai della regista indiana Payal Kapadia, anche questa è un’opera dalla dimensione intima, ma perfettamente calata nella realtà sociale, che aiuta a capire lo stato dell’umanità o, per meglio dire, dell’essere umano nel mondo. Perché sia il film di Kapadia che quello di Lojkine sono lavori dal respiro e dalla visione ampia, che indagano il particolare per arrivare al generale. Quello di Boris Lojkine è un concentrato densissimo di microcosmo.

Ma prima di tutto è un volto, quello di Abou Sangare. Così si chiama l’attore non professionista – davvero eccezionale e che speriamo di ritrovare in futuro – che porta il film letteralmente sulle spalle, come una sorta di laica via crucis di un’umanità eternamente sospesa. Nella vita reale è un meccanico originario della Guinea. Nel film interpreta Souleymane, un fattorino anche lui originario della Guinea. Entrambi si trovano in uno stato di semi-irregolarità, in attesa di asilo. Ma dietro le apparenze è l’attesa, e quello che comporta, a essere rappresentata. Nella frenesia del movimento costante si nasconde lo stato d’animo di questa attesa, che si fa ansiogena fino a diventare lancinante, un’attesa che consuma nel profondo. Ma con quanta umanità è restituito tutto. Questa umanità è restituita in primo luogo attraverso il volto di Abou/Souleymane, di cui la regia abbonda nei primi piani. Un volto molto bello e allo stesso tempo macerato da qualcosa che lo travaglia. I momenti in cui la camera lo inquadra, insieme ad alcuni altri più intimi, sono i rari momenti lenti, per così dire, di La storia di Souleymane.

L’apertura è statica, incentrata appunto sul volto di Souleymane in fila insieme ad altri. I suoni crescono lentamente, anzi all’inizio siamo quasi nel muto, ma il volto è già lì, domina lo schermo con la sua forza, poiché esprime una verità intrinseca: l’essere umano che non ha nulla, fatto salvo la sua umanità, e in attesa perenne che qualcosa di altrettanto umano capovolga tutto. Buzzati nel romanzo Il deserto dei Tartari rappresenta questa attesa incessante, infinita, di un nemico fantomatico che non arriva mai, nell’immobilità più totale. Se è vero che l’arte indaga la metafisica, allora il regista Boris Lojkine fa la stessa cosa di Buzzati, ma con un processo opposto. In termini sia formali che narrativi sceglie cioè la velocità per rappresentare l’attesa di qualcosa che non arriva e che forse non arriverà mai, almeno nel senso sperato da Souleymane: ovvero essere accolto dalla Francia.


Eppure il film si apre proprio con Souleymane che entra negli uffici dell’Ofpra, cioè l’ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi, con cui peraltro Lojkine ha lavorato molto per costruire il film, insieme a tanti guineani. È l’ansia di vita di Souleymane a essere raccontata, ma entrambi i punti di vista sono presenti, magari lavorando anche sul fuori campo. E sul non detto. Ma dopo quella breve sequenza in cui Souleymane è in fila per il colloquio, l’intero film è come un lungo flashback sui giorni, le ore, che precedono questo incontro. E che sembrano durare all’infinito, in modo speculare alla velocità di Souleymane in bicicletta tra le strade di Parigi mentre effettua consegne a raffica. La dilatazione del tempo e quella degli spazi così come, a seconda dei momenti, il loro contrarsi, vanno mano nella mano.

Per far sentire la carica umana, l’umorismo, la gentilezza, le speranze, e ovviamente la tanta ansia mista a un fondo di disperazione, pervasivo ma costante, di Souleymane, così come delle tante persone della sua comunità, senza che mai affiori un filo di retorica, il regista ci immerge nelle luci e nei suoni di una Parigi invernale ma dalle atmosfere intense, avvolgenti, spesso notturne. Seguendo Souleymane che corre, sfreccia in bicicletta, e facendoci temere per lui in ogni istante, senza che mai, anche qui, la regia indugi nel sensazionalismo. La volontà di far sentire la giungla della metropoli attraverso l’incessante giungla dei suoni, dei clacson, dei motori che rombano, delle sirene, dello sferragliare dei treni della metropolitana, o anche del vociare continuo, eliminando così ogni colonna sonora musicale, è come un insieme di liane astratte che si fanno ben concrete e in cui Souleymane deve di continuo districarsi con fatica, e che elevano il film alla dimensione metafisica, al pari del cinema neorealista o di quello più recente dei fratelli Dardenne, ma con una modalità tutta sua.

Del resto, alla sua terza opera di finzione, in cui tratta di temi simili, il regista, che proviene dal documentario, per queste sequenze nelle strade parigine (lui stesso definisce il film come un “lungo inseguimento”) ha lavorato con troupe piccole, molto al di sotto di quello che è lo standard comune perfino per una squadra ridotta. In questo caso composta da cinque o sei persone, a volte addirittura tre, tutti in bici dietro ad Abou Sangare: il tecnico del suono ha dovuto inventarsi delle nuove modalità di lavoro adatte a uno spostamento veloce in bicicletta.

Solo nelle sequenze statiche ambientate in ampi spazi, come il centro d’accoglienza in cui Souleymane dorme insieme ai suoi compagni, si è lavorato con troupe più grandi. Questo perché l’ambizione dichiarata dal regista di “adattare il dispositivo cinematografico alla realtà” è quella di un lavoro formale in cui le stesse procedure tecniche e i metodi di lavoro si fanno filosofia di arte come di vita. Tutto qui fa corpo con quello di Souleymane.

È con questo corpo a corpo positivo che si raggiunge la dimensione intima, malgrado la città fredda e oppressiva in cui si muove il protagonista. Una dimensione intima, calda, osmotica, che però non impedisce la regia e il montaggio nervoso, tagliente, è il caso di dirlo, come quando Souleymane nella sua corsa infinita entra per un pelo nel vagone della metropolitana: sequenza magistrale in grado di far percepire fisicamente allo spettatore lo schioccare della chiusura delle porte del treno che sembrano chiudersi quasi come le lame di una ghigliottina.

Il suo stare sul corpo di Souleymane equivale in definitiva a fare del cinema un corpo. E se si pensa ai Dardenne – a cominciare dalla Palma d’oro, Rosetta (1997) – il concetto di far sentire prepotentemente l’affanno del vivere prende qui un senso forse più umano e lo stile di regia è molto diverso. L’esplicito riferimento di Lojkine al cinema dei fratelli Safdie, autori centrali del cinema indipendente statunitense e purtroppo da noi ancora misconosciuti, non stupisce. Anche per la sequenza citata nella metropolitana si pensa al loro Good time (2017), ambientato in una città labirinto in cui l’azione paradossalmente esprime il sentimento di oppressione. Ma in qualche modo il lavoro del regista francese è anche un modo per rilanciare in maniera del tutto personale la lezione etica del cinema neorealista, senza pretendere di esserne la copia o di scimmiottarlo con opere di maniera. È importante se si tiene presente che il cinema d’autore occidentale, in particolare francese, si sta imborghesendo. Qui la bicicletta rubata, o che manca, in effetti non è la cosa più importante. Lo è, invece, arrivare all’incontro per un permesso di soggiorno e saper dire la verità: due orizzonti fragili che sono uno solo.

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