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Molti bei film e una delusione alla Festa del cinema di Roma

Bound in heaven. (Dr)

Quella finita la scorsa domenica è stata un’edizione della Festa del cinema di Roma stimolante, con un palmarès che non ha mancato quasi nessuna delle opere più importanti del concorso, sempre vario e interessante, e caratterizzato in modo evidente dal ritorno delle atmosfere, dell’empatia con i luoghi, oltre che con gli esseri umani, e di una certa libertà nel costruire un’opera cinematografica. Una questione, l’assenza di atmosfere, che segna gran parte della produzione di cinema d’autore o di genere di qualità.

La Festa si conferma in netta ripresa per il successo di pubblico, i tanti ospiti e le iniziative culturali e pedagogiche da quando, nel 2022, la presidenza della fondazione Cinema per Roma è passata al direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli, coadiuvato nella direzione artistica da Paola Malanga. Il nuovo presidente Salvatore Nastasi, persona di esperienza nella macchina culturale statale e uomo di cultura, ha proseguito con intelligenza il percorso già tracciato, sempre con Malanga alla direzione artistica.

L’apertura, sia del festival sia del concorso, è stata affidata all’importante film di Andrea Segre, Berlinguer. La grande ambizione, in uscita il 31 ottobre per la Lucky Red, mentre in chiusura c’è stato Modì. Tre giorni sulle ali della follia (sezione Grand public) di Johnny Depp, a cui è stato dato anche il premio alla carriera. Come dice lo stesso titolo, quest’ultimo è il racconto di tre giorni chiave nella vita del pittore e scultore Amedeo Modigliani. La Be Water Film lo porterà in sala il 5 dicembre, con la concorrenza di altri film importanti, tra cui il Leone d’oro La stanza accanto di Pedro Almodóvar.

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L’attore torna alla regia quasi trent’anni dopo il sottovalutato Il coraggioso (1997), con un progetto dall’infinita gestazione e con la scelta sorprendente di Riccardo Scamarcio nel ruolo del pittore (è una coproduzione britannica, italiana e ungherese). Diciamo che c’è molta messa in scena in quest’ottimo film, e fin dall’apertura.

Quasi un’opera da manuale di come si possa fare un film teatrale, ma con tutta la forza specifica del cinema. Scamarcio, dopo il bel film di Michele Placido L’ombra di Caravaggio (2022), per la seconda volta interpreta con talento un pittore maledetto e genio irrequieto, dall’anarchia e dall’energia quasi ingestibili, un magma incandescente quanto incontrollabile, attratto dalle donne quanto difensore dei poveri, morto ad appena 35 anni. Se Placido faceva della biografia di Caravaggio un’opera quasi alla Alexandre Dumas, in Modì, ambientato nella Parigi della belle époque devastata dagli orrori della prima guerra mondiale, siamo invece in una sorta di grand théâtre o grand guignol. E come tale surrealista, buffonesco e tragico, a tratti comico, al punto da farsi inseguire dalla polizia dopo aver sbeffeggiato in pubblico un generale per la scarsa attenzione sessuale dimostrata alla moglie.

Depp fa uso di registri visivi diversi, perfino le comiche del muto che all’epoca trionfavano, amalgamandoli bene. Inutile cercare la dimensione storica e introspettiva in senso stretto: con un inizio e degli intermezzi quasi da vaudeville, siamo costantemente immersi in una rappresentazione simbolica e onirica delle allucinazioni di Modigliani. E la lunga, visionaria sequenza notturna che comincia tra le scale di Montmartre non assomiglia a nulla di visto finora.


Dalla biografia antiaccademica di un genio artistico a quella asciutta di un politico fuori norma in senso opposto, per sobrietà, integrità morale e pudore ai limiti della timidezza, tanto quanto era netto nelle convinzioni e nella maniera di sostenerle, incantando così gli elettori. Per l’intensità del rapporto che seppe creare con il paese, anche quando era contestato, ancora oggi Berlinguer continua a interrogarci tanto sul piano politico quanto su quello personale: quasi si stenta a credere che una persona simile abbia fatto politica guidando il più grande partito comunista occidentale e la seconda forza italiana per più di dieci anni. Proprio per questa unicità i suoi funerali nel 1984 furono tra i più partecipati nella storia repubblicana, con oltre un milione di persone andate a rendergli omaggio, compresi tutti i grandi del cinema italiano dell’epoca, da Federico Fellini a Monica Vitti, da Michelangelo Antonioni a Marcello Mastroianni.

Elio Germano, premiato per la migliore interpretazione, impressiona, ma forse fatica un po’ a restituire un Berlinguer che era meno ingrugnito di come appare nel film, che se sorrideva con parsimonia quando lo faceva era un sole che irradiava le persone, come attesta la fotografia in apertura dei titoli di coda. Tuttavia, Germano è davvero notevole non solo nel restituire il timbro vocale e i discorsi in pubblico, cose per nulla facili, ma soprattutto la tensione interna che abitava quest’uomo, minuto ma con una determinazione d’acciaio, che forse, anche alla visione del film, si sospetta fosse troppa. Come ha scritto Goffredo Fofi, Berlinguer è stato ucciso non da una pallottola ma dalla politica, da una politica sempre più bassa.

La forma film scelta da Segre nella sua sobrietà è più intelligente e profonda di quello che può sembrare: è lo specchio tanto dell’uomo quanto della sua politica, di quell’austerità che tanto fece discutere. La dimensione formale rievoca meglio di tutto quell’epoca, un periodo difficile in cui però la sobrietà era diffusa, in cui il centro stesso di Roma era popolare e non ancora assorbito dalla borghesia.

Berlinguer muore dopo un ictus che lo colpisce durante un comizio nel 1984, in quegli anni ottanta in cui l’Italia muta pelle e identità nel craxismo e nel berlusconismo: ne è paradigmatico un celebre spot sulla Milano da bere. Le idee di quegli anni erano tante e complesse, e il periodo storico trattato dal film ampio quanto denso di avvenimenti: come per l’opera di Placido su Caravaggio avrebbe forse giovato, paradossalmente, allungare la durata per restituire meglio certe cose, tra cui il rapporto, fondamentale, tra Moro e Berlinguer, e inserire qualcosa di quella società dello spettacolo che Berlinguer detestava. Delle pause, dei momenti di ricreazione, anche puramente visiva, dalla massa continua di informazioni, parole, frasi riprese dai discorsi e dagli interventi pubblici. Tuttavia, Segre riesce a trasmettere il magma di idee che nascondeva Berlinguer, uomo dalla grande visione – o ambizione – all’opposto dell’italietta truffaldina e ambigua di un Andreotti, nel film di una cordialità inquietante.

Senza retorica

Anche il cinema si è imborghesito e sembra aver dimenticato il precariato giovanile e i poveri, quasi più nessuno racconta quelli bianchi. Senza volerlo si rende complice della nuova guerra tra gli ultimi, tra immigrati e non immigrati. Il sempre fine Robert Guédiguian figura tra le poche eccezioni. A Roma ha presentato la splendida commedia umanistica La gazza ladra (Grand public), che le Officine Ubu porteranno nelle sale. Implacabile, di una precisione e una concisione nella costruzione delle situazioni, a volte secca come il cinema di un Éric Rohmer, ma sempre delicato e quasi dolce nel tono, inondato dalla luce estiva della Costa Azzurra, attraverso i suoi attori preferiti – Ariane Ascaride e Jean-Pierre Darroussin, entrambi perfetti – il regista parla della solitudine di tante persone comuni di fronte a situazioni lavorative impossibili miste a desideri incontrollati: l’ambiguità della realtà più quotidiana è perfettamente rappresentata.

Guédiguian cesella con cura le situazioni per mettere a nudo momenti emblematici senza didascalismi e retorica, stando molto attento, mettendo il perdono al centro per far rifiorire l’umanità tra le persone.


Come pure nel film di Claudio Giovannesi Hey Joe (Grand public), un capolavoro scritto dal regista insieme a Massimo Gaudioso e allo scrittore Maurizio Braucci. Tutto è perfetto: scrittura, regia, fotografia, montaggio e ovviamente interpreti. E tutto è sensibile, mai patinato. Ottimo James Franco, nel ruolo di un ex soldato statunitense che torna a Napoli perché una lettera arrivata in ritardo di anni lo avverte che la donna di cui si era innamorato alla fine della guerra è morta e il figlio che ha avuto con lei è orfano. Francesco Di Napoli, nei panni del figlio, è bravissimo nel restituire fremiti e incertezze di un animo costretto e sempre indeciso, se non remissivo, creato da un ambiente che non lascia scampo. Un film determinista nell’analisi ma profondamente umanistico nel suo cuore.

L’umanesimo ritrovato è sembrato essere al centro di molti dei film premiati dalla giuria del concorso Progressive, presieduta dall’argentino Pablo Trapero, caratterizzati dalla forte capacità di catturare atmosfere: tra i non premiati sono ottimi esempi L’albero di Sara Petraglia, che esordendo riesce nel miracolo in cui tanti falliscono, cioè fare un teen movie sensibile, originale e credibile su delle adolescenti gay, tormentate, dolci e piene di vita; e L’isola degli idealisti, che Elisabetta Sgarbi ha tratto dall’omonimo romanzo di Scerbanenco, praticamente un viaggio dantesco nelle atmosfere e tra personaggi che oggi sembrano quasi appartenere a un’altra dimensione.

Il premio per il miglior film è andato a Bound in heaven della cinese Xin Huo, esordiente alla regia ma già sceneggiatrice di diversi film. Una scrittura puramente visiva, inquadrature, movimenti di camera fluttuanti come in un sogno e montaggio dominano sulla sceneggiatura: una storia d’amore tra una donna costretta dalle convenzioni sociali a sopportare un uomo schiavista e un giovane carismatico e un po’ allo sbando di cui lei poi scoprirà la malattia incurabile. È una storia di solitudini metropolitane, che pian piano si fa melodramma, forse un po’ ridondante: ma è unica la maniera di filmare i sentimenti sui volti e gli ambienti notturni della città, di cui è un perfetto esempio la sequenza onirica sui fuochi d’artificio, ripresi dall’alto con il drone.


Ma chi fa un cinema di atmosfere notturno eccezionale, un’opera perfettamente calibrata di denuncia sociale, oltretutto dentro una cornice di genere, con un finale umanista dal quale dovrebbe imparare tanto cinema statunitense di oggi, è La nuit se traîne (La notte si trascina), esordio vincitore del gran premio della giuria, firmato dal belga Michel Blanchard, che la 102 distribution porterà in sala.

Incentrato su un ragazzo nero che fa il fabbro e che si trova al centro di una notte in stile Fuori orario di Scorsese, contrariamente a tanti vuoti scimmiottamenti europei del cinema statunitense – si veda Fino alla fine (Grand public) di Gabriele Muccino, asettico, privo di atmosfere e schematico – riesce a creare un’opera originale, di classe, che davvero incolla alla poltrona.

Il premio per la miglior regia è andato alla statunitense Morrisa Maltz per Jazzy. Notevole immersione nel quotidiano di una ragazzina nativa oglala in South Dakota e del suo gruppo di amici, è uno spaccato di vita unico sull’infanzia che se ne va, forse rubata, ancora una volta ricco di atmosfere, in cui, come in una striscia dei Peanuts di Charles Schulz, gli adulti sono spinti fuori. Compaiono nell’ultima mezz’ora, capeggiati da Lily Gladstone, che ha coprodotto il film. Sarebbe davvero un peccato se non uscisse in Italia.

Premio speciale della giuria al cast femminile di Leggere Lolita a Teheran di Eran Riklis in uscita il 21 novembre per la Minerva Pictures e tratto dal libro omonimo di Azar Nafisi. Non si arriva al livello d’intensità del romanzo di Nafisi, ma il film è più che godibile e lavora con intelligenza e finezza sui volti di sei donne, sismografi di un intero paese imprigionato.

Malgrado le premesse interessanti, delude invece l’esordio alla regia dell’inglese Christopher Andrews, Bring them down, premiato per la miglior sceneggiatura: si possono fare anche film più duri sulla vita rurale – si veda Padre padrone dei Taviani – ma quello di Andrews si esaurisce in una pesantezza meccanica.

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