Il parroco del Vaticano, il vescovo di Roma, si è trasformato, con l’indizione del giubileo della misericordia, in Francesco I, è insomma tornato papa a tutti gli effetti. Il tempo dirà se si tratta di una parentesi di metodo necessaria oppure se siamo di fronte, come sembra probabile, a una svolta nel pontificato di Bergoglio.

D’altro canto qualcosa nella grande riforma proposta dal pontefice alla chiesa si è inceppato, il processo avviato mostra segni di cedimento, le opposizioni interne resistono. La perestrojka vaticana è entrata nel frattempo in una fase decisiva e il papa ha deciso di indossare i panni del sovrano per non finire travolto da qualche congiura di palazzo, anche se questo lo costringerà a riconsiderare i suoi piani. Certo è che pure per i suoi avversari le cose non sono semplici, dopo Francesco non si può semplicemente tornare al passato.

Le finanze e la curia

Il progetto di Bergoglio prevedeva che l’apertura della chiesa alla modernità avvenisse su due livelli: il primo, interno, toccava direttamente il ridimensionamento del potere vaticano e curiale nei suoi gangli di potere, nei suoi privilegi, e comprendeva la trasformazione delle finanze d’Oltretevere, che da opache dovevano diventare trasparenti.

Qui si registrano i risultati più positivi: il nodo dell’Istituto per le opere di religione (Ior) è stato affrontato fin da subito così come la riorganizzazione delle finanze, l’adeguamento agli standard internazionali sulla trasparenza, l’introduzione di leggi che regolino la lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo. Non tutto è ancora pronto, ma il punto era davvero critico e l’intervento è stato immediato.

Rimane incerta, invece, la riforma della curia ( in questo caso dovrebbe essere riscritta la Pastor bonus ovvero la costituzione apostolica che regola il funzionamento della curia romana e i compiti di ogni dicastero). L’accorpamento di vari “ministeri” sembra un dato ormai acquisito, eppure i lavori procedono a rilento, lo smantellamento di parte degli apparati è ancora in corso d’opera. Secondo uno dei più stretti collaboratori del papa, il cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga, l’opera di riforma non si ferma ma “ci vorrà ancora tempo”.

Parallelamente prendeva corpo il secondo punto d’attacco, ovvero il tentativo di portare la chiesa universale ad affrontare le tematiche legate all’etica, alla famiglia, alla sessualità aprendosi al confronto con la condizione umana in tutte le sue varianti.

Da qui il dibattito sulla famiglia attraverso ben due sinodi – il secondo si svolgerà in Vaticano a ottobre. Il meccanismo dei sinodi (assemblee di vescovi-delegati provenienti da tutti gli episcopati del mondo) doveva poi aprire una terza porta – forse la più insidiosa per il vecchio potere curiale e per le correnti conservatrici – quella di una collegialità non più intesa come simulacro vuoto del Vaticano II, non solo di facciata quindi, ma momento decisionale sia pure sotto il governo di “Pietro”. Quest’ultimo passaggio rappresentava il compimento del concilio.
La parola usata dal papa per descrivere tale complesso tentativo è “misericordia”, appunto, cioè l’idea di una chiesa non incastonata in un sistema di potere, capace di perdonare e quindi di dialogare, di stare in mezzo al mondo, rinunciando a giudicare ossessivamente in base alla sua legge gli uomini pur senza rinunciare a trasmettere la sua visione originale del mondo.

Si dirà che questo era un passaggio obbligato in quanto gli uomini, i popoli, sempre meno tendono a seguire la legge della chiesa. E tuttavia se si guarda all’impatto straordinario avuto dal viaggio del papa nelle Filippine o al ruolo decisivo ricoperto dalla chiesa italiana negli ultimi vent’anni sui temi etici e bioetici e sulla mancata estensione di alcuni diritti civili, si capirà che il cambiamento impresso dal papa non riguardava solo le chiese locali o i credenti, ma le società in cui questi sono immersi.

Francesco ha poi riempito di contenuti il magistero ponendo al centro della sua parola la questione sociale, cioè il tema della disparità tra nord e sud, tra centro e periferia, della cultura dello spreco, del consumo dell’ambiente, delle migrazioni e via dicendo.

I limiti della guerra lampo di Francesco

Dopo due anni il cambiamento bergogliano ha compiuto diversi passi avanti, soprattutto grazie all’interventismo pubblico del papa e di alcuni dei cardinali suoi più stretti collaboratori – dai tedeschi Marx e Kasper all’honduregno Maradiaga, all’italiano Montenegro, al filippino Tagle ad altri – ma sta incontrando anche difficoltà crescenti.

Le iniziative di vescovi locali che appoggiano apertamente la svolta sono ancora poche, isolate, prevale la prudenza. Lo stesso vale per un laicato, per esempio in Italia, in cui nessuna organizzazione si è espressa in modo netto su temi controversi come la comunione ai divorziati risposati, l’omosessualità, le coppie di fatto.

Pesa il legame con la Cei e il timore del dopo; il retropensiero cioè che finita l’epoca Bergoglio si torni all’ordine precedente. Questa situazione ha avuto alla lunga una conseguenza: il papa, che ha dovuto di volta in volta fare sia il moderato sia l’estremista, ha giocato in troppi ruoli.

Francesco sente dunque che qualcosa scricchiola dopo due anni di guerra lampo. Per altro al prossimo sinodo ordinario sulla famiglia, quella svolta tanto invocata e chiesta ai vescovi, potrebbe arrivare solo in parte o essere annacquata oltre il dovuto, o contenere troppe controindicazioni.

Il problema del resto si riduce a questo: ci sarà scritto nei documenti conclusivi che è possibile dare – sia pure a certe condizioni – la comunione ai divorziati risposati? Può sembrare un tema di lana caprina, ma spesso i grandi cambiamenti storici sono passati attraverso questioni apparentemente minori che avevano acquistato un alto valore simbolico. È a questo punto che Bergoglio è andato in San Pietro, ha convocato un buon numero di cardinali, e ha indetto – da capo della chiesa cattolica – un giubileo (che inizia l’8 dicembre, poco dopo la conclusione del sinodo) nel quale bisognerà “superare il legalismo” e “ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni”.

“I confessori”, si legge nella bolla d’indizione “sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e a esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori e incapace di gioire, per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto, e non ha senso dinanzi alla misericordia del Padre che non ha confini”. Il confessore, aggiunge il papa, non dimentichi di essere egli stesso in primo luogo un peccatore.

Una, cento, mille porte sante

A questo punto Francesco ha piazzato un colpo interessante. La celebrazione del giubileo, anno del perdono per eccellenza, non si svolgerà solo a Roma, nella città di Pietro e Paolo, le porte sante (“le porte della misericordia”) anzi saranno aperte in ogni diocesi, nei santuari, insomma ovunque una presenza cattolica si fa sentire nel mondo.

Significa che le chiese locali sparse nei cinque continenti potranno prendere iniziative, stabilire su cosa incentrare il proprio giubileo della misericordia, intervenire. Il papa ha così deciso di dare la parola alla chiesa universale con un tentativo pacifico di sovvertimento dal basso. Non va dimenticato infatti che i due sinodi sono stati accompagnati dalla distribuzione di questionari su tutti i temi, anche i più controversi, relativi a famiglia e sessualità. È accaduto però che spesso i vertici delle conferenze episcopali abbiano bloccato la diffusione dei quesiti, oppure l’abbiano limitata ad ambienti circoscritti, in ogni caso l’iniziativa non ha avuto l’effetto detonatore sperato.

La manovra bergogliana del giubileo mostra intanto due effetti: da un parte viene esercitata una pressione non da poco sulla stessa assise sinodale con il tentativo di orientarne le scelte, ma in seconda battuta si mette in conto anche un esito incerto e quindi si ridimensiona, proprio attraverso l’anno santo, l’assise sinodale.

Di fronte a sé, come avversari, papa Francesco ha, neanche a dirlo, il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale tedesco Ludwig Gerhard Mueller. Con lui il nuovo plenipotenziario per le finanze vaticane, il cardinale australiano George Pell, vicino all’Opus Dei, scelto da Francesco per dare battaglia al vecchio e coriaceo mondo finanziario vaticano, ma di certo non un liberal sul piano dottrinale. Ancora, tra gli oppositori troviamo Wilfrid Fox Napier, capo della chiesa sudafricana, avverso alla curia romana anch’egli ma conservatore. E poi gran parte della potente chiesa statunitense. Per questo, tra l’altro, Francesco sta procedendo a nominare blocchi di neocardinali nel sacro collegio: l’obiettivo è quello di cambiare, nell’arco di qualche anno, i rapporti di forza al livello mondiale dando così il colpo decisivo in favore del cambiamento.

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