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Tra papa Francesco e l’America Latina è finito l’idillio

Papa Francesco in Vaticano, il 27 maggio 2016. (Alberto Pizzoli, Reuters/Contrasto)

Papa Francesco ha un problema in casa, e più precisamente in Argentina, ma i guai si stanno allargando a tutto il Sudamerica. La strategia di Bergoglio nel Cono sud faceva leva essenzialmente sull’alleanza stretta – prima in via diplomatica e poi attraverso la costruzione di rapporti personali – con alcuni leader della regione in merito a vari temi rilevanti sia per l’agenda politica sia per il magistero del papa. Si tratta di un ampio spettro di questioni tra cui il riequilibrio delle risorse tra nord e sud del mondo, il netto rifiuto della supremazia dei centri di potere finanziari sui governi e sulla politica, la tutela dell’ambiente, la lotta alla povertà estrema, la necessità di favorire la crescita di un’economia sociale, l’attenzione agli ultimi e agli “scartati”.

Non era il libro dei sogni, ma il ritorno ai punti chiave della dottrina sociale della chiesa in chiave sudamericana, cioè sviluppando quanto elaborato da varie correnti di pensiero: dalla teologia della liberazione alla teologia del popolo (quella bergogliana, più distante dal marxismo), dal movimento dei senza terra brasiliani alle correnti ambientaliste e in difesa delle popolazioni indigene, dall’attivismo dei difensori dei diritti civili all’impegno di associazioni e congregazioni cattoliche in favore delle fasce sociali più deboli nelle grandi metropoli.

In parte si tratta di movimenti che hanno avuto la loro fase culminante tra gli anni sessanta e gli anni ottanta del novecento, a parte il caso delle tematiche ambientali come, per esempio, lo sfruttamento minerario selvaggio che sta devastando grandi porzioni di territorio nel continente. Bisogna tener conto, tra l’altro, che molti attivisti “verdi” vengono uccisi ogni anno in America Latina. E poi la povertà che si diffonde nelle grandi metropoli, la crescita dei cartelli criminali legati al traffico di droga di armi e di persone, la speculazione finanziaria che colpisce intere economie: sono tutti temi sollevati dal papa e che ritornano nella storia recente dell’America Latina.

Tra il papa e il presidente argentino è in corso una guerra di nervi o una sorta di guerra fredda

Cristina Kirchner, ex presidente argentina ed ex nemica dell’arcivescovo Bergoglio e poi sua alleata – in un rovesciamento di ruoli tipico di una vita politica dove sono ammesse le forti passioni ma non i sentimentalismi; Dilma Roussseff, la ormai ex presidente del Brasile nuova potenza mondiale; Evo Morales, il leader contadino della Bolivia; Rafael Correa, espressione di un Ecuador plurale. Erano alcuni dei riferimenti politici del papa. Modelli differenti tra di loro e non certo tutti o sempre coerenti con le proposte di cambiamento radicale poste dal pontefice o dai vari movimenti sociali, ma comunque sensibili al linguaggio, alla cultura di papa Francesco.

Il quadro, però, in pochi mesi è profondamente cambiato. Al posto di Cristina Kirchner è arrivato Mauricio Macri, sostenuto da ambienti finanziari internazionali, che, appena eletto, ha raggiunto un’intesa con i creditori dell’Argentina. Questi ultimi – e in modo specifico un gruppo soprannominato “fondi avvoltoio” (fondos buitres) - si erano opposti strenuamente a un accordo con il governo Kirchner per la ristrutturazione (e quindi riduzione pilotata) del gigantesco debito del paese. In buona sostanza, il debito dell’Argentina era nelle mani di alcuni potenti speculatori guidati dal finanziere ultra repubblicano statunitense Paul Singer il quale ha rifiutato ogni proposta di Buenos Aires.

L’Argentina ora ha pagato tutto, per fare questo però ha ricevuto enormi prestiti e si è indebitata di nuovo ma, soprattutto, la crisi economica interna non ha cessato di mordere. La chiesa lo sottolinea ogni giorno e tra il papa e Macri – “i due argentini più potenti del mondo”, secondo una definizione della stampa locale – è in corso una guerra di nervi o una sorta di guerra fredda nella quale sta mediando con pazienza una donna, il ministro degli esteri Susana Malcorra. D’altro canto nemmeno la gestione economica kirchnerista era esente da colpe, anzi.

La crisi che viene da lontano

Dilma Rousseff ha parlato di “golpe bianco” a proposito della sua destituzione decisa dal parlamento, e non senza ragione. Va detto però che i campanelli d’allarme erano suonati da tempo: i campionati del mondo di calcio di due anni fa, in Brasile, erano stati accompagnati da imponenti contestazioni sociali, trasformando l’evento da marcia trionfale a momento di crisi del modello Lula. D’altro canto il crollo del prezzo del petrolio a livello mondiale ha messo in crisi economie e sistemi politici, dal Venezuela, ormai al collasso, alla Bielorussia, senza risparmiare l’economia brasiliana.

Di certo però non è passato inosservato che papa Francesco, incontrando solo poche settimane fa i vertici del Celam – il Consiglio episcopale latinoamericano, ovvero il forte e compatto organismo che rappresenta tutte le chiese della regione - abbia parlato di rischio di “golpe de estado blanco” in alcuni paesi dell’America Latina, un’espressione riportata tra virgolette in un lungo comunicato.

Con il Messico, l’altro grande gigante cattolico della regione con il Brasile, e il suo presidente Enrique Peña Nieto, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), antico e potentissimo partito centrista, spesso accusato di essere garante di interessi legati al narcotraffico, le cose non vanno meglio. Il papa è stato di recente in Messico dove ha denunciato la situazione di violenza in cui vive il paese, pur cercando al medesimo tempo un’intesa minima con il governo. Peña Nieto ha dato ora il suo appoggio all’inserimento dei matrimoni omosessuali nella costituzione, allo stesso tempo propone modifiche al codice civile per eliminare, sempre sulla stessa materia, ogni discriminazione verso i gay. In tal modo ha suscitato la reazione contraria dei vescovi e quella irritata del Vaticano, ormai ai ferri corti col Pri.

Intanto una cosa è certa: il viaggio del papa in Argentina viene rimandato da un anno all’altro

L’America Latina sta insomma diventando un ginepraio per papa Francesco, altro che “patria grande”. In Venezuela la Santa Sede ha dovuto rinunciare a esercitare una mediazione – pure richiesta dalle due parti – tra le opposizioni e il governo di Nicolas Maduro, perché la contrapposizione è troppo dura e il disastro sociale dilaga. Resta il ruolo positivo giocato dalla chiesa e dal Vaticano nel quasi raggiunto accordo tra le Forze armate rivoluzionarie della Colombia e il governo di Juan Manuel Santos, un accordo di pace che pone fine a più di 40 anni di conflitto interno in Colombia. Come pure passerà alla storia la mediazione del papa tra Cuba e Stati Uniti.

Ma proprio in Nord America avanza minacciosa l’ombra di Donald Trump il quale ha posto al centro della sua campagna per la Casa Bianca l’odio per gli immigrati e gli stranieri, la cosa più lontana da papa Francesco che si potesse immaginare. Bergoglio non ha perso tempo e ha già lanciato l’anatema contro il mega miliardario a stelle e strisce (“non è cristiano”), ma ora la chiesa si trova stretta tra Hillary e Donald, due candidati comunque difficili per le gerarchie ecclesiali (meno per gli elettori cattolici, dicono i sondaggi, il che dimostra come il popolo dei credenti sia in movimento).

Nel frattempo il prossimo autunno in Argentina si svolgeranno importanti elezioni parziali con le quali verrà rinnovata una parte significativa del parlamento. Se Macri perderà, diventerà una sorta di “anatra zoppa”, secondo la definizione utilizzata anche negli StatiUniti per descrivere la stessa situazione (un presidente privo della maggioranza parlamentare). Ma intanto una cosa è certa: il viaggio del papa in Argentina viene rimandato da un anno all’altro, e per ora si parla del 2017 a meno di sorprese. Francesco non è mai tornato nella sua patria, e la cosa comincia a costituire un’anomalia nel pontificato.

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