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In un Natale di guerra il papa rilancia il messaggio di Gandhi e Martin Luther King

Papa Francesco in Vaticano, il 14 dicembre 2016. (Vincenzo Pinto, Afp)

Un mondo in fiamme, un Natale di guerra: probabilmente, da quando è stato eletto al Soglio di Pietro, questo è il periodo più denso di nubi per papa Francesco. A cominciare da quella “terza guerra mondiale che si combatte a pezzi, a capitoli”, che il vescovo di Roma ha avuto il coraggio di vedere e di chiamare per nome, e divenuta sempre più reale e drammatica con il passare del tempo. Nell’ambito delle relazioni internazionali, la presidenza Trump, ancora prima di cominciare ufficialmente, apre una stagione di incognite e di rischi: di certo mai come in questi giorni si è registrata una distanza così grande, un’incomunicabilità così evidente, tra la Casa Bianca e la Santa Sede.

Il messaggio più forte lanciato dal papa in questi anni è contenuto nell’enciclica Laudato si’ – che propone un capovolgimento del modello di sviluppo, una contestazione dello strapotere della finanza che disumanizza l’uomo, e una nuova centralità ecologica fondata sulla tutela e la trasmissione alle future generazioni degli ecosistemi ambientali e sociali, ben lungi da ogni visione salvifica del mercato – e quindi si capisce quale sia il baratro che si è aperto tra l’attuale papato e il governo che si sta insediando a Washington. Se a questo si aggiunge che il nuovo segretario di stato in pectore è un petroliere, Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobil, una delle multinazionali dell’oro nero a livello mondiale nonché amico e socio d’affari di Vladimir Putin, si potrà comprendere meglio quale sia lo stato d’animo nei corridoi della diplomazia d’Oltretevere.

Non va inoltre dimenticato come, tra propaganda e realtà, il nuovo presidente statunitense abbia affrontato la questione migratoria in termini a dir poco dissonanti dall’approccio invocato dal papa: muri contro inclusione, paura contro solidarietà, repressione contro cittadinanza, nazionalismo contro cosmopolitismo. L’universalità del cattolicesimo del resto, per evitare di rinchiudersi nei recinti stretti dell’integralismo nazionalista, non poteva che scegliere il migrante nel momento in cui la globalizzazione comincia a coinvolgere milioni di esseri umani e non solo merci e capitali. E questa è stata appunto la strada seguita di Francesco a cominciare da quel Messico latino che è diventato, al contrario, lo spettro agitato da Trump nella lunga campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.

Nell’ormai cronico stallo del Consiglio di sicurezza, la lettera di Bergoglio ad Assad è stata luna delle poche iniziative diplomatiche reali

Tuttavia, la ferita più profonda per il papa è quella della guerra, per altro una delle principali cause dell’esodo di milioni di persone, dal Medio Oriente e dall’Africa, verso l’Europa. Quando papa Francesco, ancora di recente, ha ripetuto che “mancano i grandi leader”, soprattutto nel vecchio continente, in fondo intendeva proprio questo: denunciare l’impotenza della comunità internazionale di fronte al disastro siriano e alle sue conseguenze; la politica – rileva spesso il papa – è incapace di rispondere alle crisi del proprio tempo stretta nella difesa asfittica di interessi particolari.

È stato allora Bergoglio stesso, nei giorni scorsi, a rivolgere un estremo appello al presidente del regime siriano Bashar al Assad – nell’immobilismo della cancellerie di mezzo mondo – con il quale chiedeva il rispetto dei civili, del diritto umanitario internazionale e il libero accesso agli aiuti umanitari per la popolazione. Erano le ore precedenti la caduta di Aleppo, e Francesco mandava dal leader siriano un proprio inviato con la sua lettera; si trattava dell’arcivescovo Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco, da poco nominato cardinale da Francesco proprio per investirlo di maggiore forza e autorevolezza.

Un goccia nel mare della tragedia, eppure di fronte a un monito così chiaro del papa nessuno poteva far finta di niente, non ci sarebbero state scusanti e silenzi possibili di fronte ai massacri. Le violenze contro i civili e l’esodo a singhiozzo da Aleppo sono andati avanti, ma di certo nell’ormai cronico stallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, quella di Bergoglio è stata una delle poche iniziative diplomatiche reali sul piano umanitario. Per altro, nel testo del messaggio mandato ad Assad, si leggeva una frase che non può essere sottovalutata: veniva infatti espressa la condanna per “ogni forma di estremismo e di terrorismo da qualunque parte possano venire”; quindi certamente dall’Isis, ma anche da chi ha proseguito imperterrito a scaricare bombe sulla popolazione inerme pur di portare a termine la propria conquista.

La non violenza è anacronistica?
Ed è allora su questo sfondo di crisi e di assenza di speranza che, lo scorso 15 dicembre, papa Francesco ha parlato di “non violenza” di fronte a un gruppo di ambasciatori che presentavano le proprie credenziali in Vaticano. A questo tema è pure dedicato il messaggio per la Giornata mondiale della pace che si celebrerà il prossimo 1 gennaio. Può apparire un anacronismo che in un quadro tanto deteriorato, scosso ancora da attentati terroristici sanguinosi a Berlino come ad Ankara, il pontefice abbia rilanciato la lezione di Martin Luther King e di Gandhi. Eppure – è il messaggio del pontefice – solo mettendo completamente in discussione determinati assetti di potere, in una chiave evangelica, il cristianesimo può ritrovare il suo senso in questo tempo, la sua voce. “La non violenza - ha detto il papa di fronte ai nuovi ambasciatori - è un esempio tipico di valore universale, che trova nel Vangelo di Cristo il suo compimento ma che appartiene anche ad altre nobili e antiche tradizioni spirituali”.

“In particolare coloro che ricoprono cariche istituzionali in ambito nazionale o internazionale, sono chiamati ad assumere nella propria coscienza e nell’esercizio delle loro funzioni uno stile non violento, che non è affatto sinonimo di debolezza o di passività, ma, al contrario, presuppone forza d’animo, coraggio e capacità di affrontare le questioni e i conflitti con onestà intellettuale, cercando veramente il bene comune prima e più di ogni interesse di parte sia ideologico, sia economico, sia politico”, ha aggiunto. “Nel secolo scorso, funestato da guerre e genocidi di proporzioni inaudite possiamo però ricordare anche esempi luminosi di come la non violenza, abbracciata con convinzione e praticata con coerenza, possa ottenere importanti risultati anche sul piano sociale e politico. Alcune popolazioni, e anche intere nazioni, grazie all’impegno di leader non violenti, hanno conquistato traguardi di libertà e di giustizia in maniera pacifica. Questa è la strada da seguire nel presente e nel futuro”.

E se questa è la via indicata dal papa, certo guardando al Medio Oriente in questi giorni, la Santa Sede deve fare pure i conti con un assottigliamento drammatico della presenza cristiana in tutta la regione. Il rischio è che presto il cristianesimo mediorientale diventi solo un ricordo, una vestigia del passato, pura archeologia. I cristiani fuggono per le guerre, la povertà, l’assenza di sicurezza, per l’impossibilità di garantire un futuro ai propri figli e a causa delle violenze prodotte dall’estremismo islamico. Fuggono, cioè, per le stesse ragioni che inducono milioni di altri abitanti della regione ad abbandonare le loro case. Solo che il loro numero, oggi, si sta riducendo in modo drastico, lasciando un vuoto dietro di sè: dall’Iraq alla Siria, dal Libano alla Giordania a Israele e ai Territori palestinesi.

In una simile situazione le comunità cristiane non sono aiutate da vecchie gerarchie ecclesiali, spesso legate a dittature e regimi ai quali hanno chiesto protezione dando in cambio consenso e complicità, come denunciò il gesuita Paolo Dall’Oglio, in una lettera aperta inviata al papa poco prima di scomparire in Siria nel luglio del 2013. La sfida per tutto il Medio Oriente, sostenuta dai settori diplomatici vaticani più lungimiranti e rilanciata ormai anche da diverse autorità musulmane a cominciare dal centro sunnita del Cairo di Al Azhar, è quello di costruire un cammino di cittadinanza che riconosca differenze culturali e fedi diverse, che faccia propri i diritti umani e civili, che rompa la tenaglia violenta costituita da autocrati e fondamentalismo.

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