Per il Vaticano lo scandalo degli abusi è l’ultima occasione per riformarsi
Lo scandalo drammatico e senza precedenti degli abusi sui minori che ha travolto la chiesa cattolica sta forse forzando l’apertura di quegli spazi di riforma che finora erano stati preclusi a papa Francesco da un’intransigente e articolata opposizione ultratradizionalista.
Il summit straordinario di quattro giorni (21-24 febbraio) sulla Protezione dei minori nella chiesa convocato da Bergoglio in Vaticano è, infatti, un evento ecclesiale senza precedenti: è la presa d’atto pubblica che una vicenda sconvolgente come quella degli abusi sessuali sui minori commessi da sacerdoti e vescovi chiede risposte che vadano oltre le norme giuridiche interne alla chiesa o l’allontanamento fino alla “riduzione dallo stato clericale” di qualche vescovo o cardinale per quanto potente esso sia, come nel caso della recente espulsione dalla chiesa dell’ex arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick.
Né saranno sufficienti a risolvere il problema i processi civili, come avverrà presto con la quasi certa condanna del cardinale George Pell, ex “ministro del tesoro” del Vaticano sotto processo a Melbourne, in Australia. La sfida alla quale dovranno rispondere i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo e i vertici delle congregazioni e degli ordini religiosi maschili e femminili è soprattutto culturale e tocca diversi nervi scoperti del dibattito interno alla chiesa.
Omosessualità e peccato
L’opposizione a Francesco ha giocato le sue carte cercando di dimostrare che esiste un rapporto causa-effetto tra omosessualità e pedofilia, come se la condizione omosessuale predisponesse maggiormente a commettere il reato o il peccato. Un nesso ovviamente del tutto privo di fondamento sotto il profilo scientifico, ma che si basa su un dato numerico: molti – non tutti – gli abusi commessi da preti sono di natura omosessuale. Il che si spiega con il fatto che quello clericale resta un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, in cui per molto tempo ha prevalso una cultura sessuofobica, repressiva, dove le pulsioni sessuali si sono sviluppate in modo violento, basandosi su rapporti di potere e di sudditanza, senza un’educazione affettiva matura e consapevole, tanto più in regime di celibato obbligatorio.
È questa l’analisi che vanno ripetendo alcuni dei collaboratori del papa; ma soprattutto è importante che uno degli uomini chiave nella battaglia contro gli abusi sessuali, monsignor Charles Scicluna, segretario della Congregazione per la dottrina della fede, a chi in questi giorni gli chiedeva come mai nelle varie relazioni pronunciate all’assise fosse stata omessa la parola omosessualità, ha risposto: “Non possiamo giudicare un’intera categoria di persone, dobbiamo affrontare ogni singolo caso per quello che è. Non si può dire che ci sia una certa predisposizione al peccato di una categoria, gli omosessuali, io non mi permetterei mai di farlo. Altrimenti si può parlare anche del nesso fra eterosessualità e abusi, ma noi dobbiamo affrontare ogni singolo caso per quello che è”.
Concetti confermati da altri due dei più stretti collaboratori di papa Francesco sul tema: il gesuita Hans Zollern, che dirige il centro per la tutela dell’infanzia dell’università Gregoriana, e l’arcivescovo di Chicago, il cardinale Blase Cupich, nominato da Bergoglio, personalità emergente della chiesa locale. Entrambi hanno spiegato come dal punto di vista scientifico, psicanalitico e in base alle indagini condotte sui casi di abusi commessi dal clero negli Stati Uniti, fosse priva di fondamento qualsiasi interpretazione che collegasse automaticamente omosessualità e violenza sui minori.
In tal modo la questione omosessuale, respinta ai margini del doppio sinodo sulla famiglia (2014 e 2015), è rientrata dalla finestra della convention straordinaria sullo scandalo abusi sessuali per essere finalmente presa di petto e riportata a una dimensione umana, comprensibile e anche, perché no, problematica per la chiesa (d’altro canto esistono comunque posizioni diverse nel mondo ecclesiale sul tema).
Aprire ai laici
Collegata a questo aspetto, è emersa con forza l’esigenza di dare ruolo e spazio reali ai laici credenti, donne e uomini, nella gestione dei casi di abuso, nel rapporto con le vittime, negli organismi locali che devono occuparsi delle varie fasi di ogni vicenda, denunce comprese. La parola magica è accountability, cioè il dovere da parte di vescovi e di sacerdoti di rendere conto, rispetto agli episodi di abuso di cui vengono a conoscenza, sia alle vittime sia al Vaticano sia alla giustizia civile e alle comunità dei fedeli.
Ma il vescovo in questo frangente non può e non deve essere lasciato solo: si tratta di scelte difficili che hanno bisogno di competenze diverse e di collegialità; il che significa relazioni con Roma, con altri vescovi, con esperti, con i fedeli. “La vera sinodalità nella chiesa ci chiama a considerare questa ampia testimonianza laica, potente e capace di accelerare la missione per la quale siamo qui giunti insieme da ogni nazione”, ha detto nella sua relazione il cardinale Cupich. “Dobbiamo integrare un’ampia partecipazione laica in ogni sforzo per identificare e costruire strutture di accountability per la prevenzione degli abusi sessuali del clero”.
Per l’arcivescovo di Chicago, “la storia dei decenni passati dimostra che la prospettiva unica di uomini e donne laici, madri e padri, informa la nostra chiesa in modo così profondo su questa tragedia che qualsiasi percorso che la escluda o sminuisca deformerà inevitabilmente la chiesa e disonorerà nostro Signore”. Un messaggio di questa portata raramente si era sentito in Vaticano, forse l’intuizione conciliare della chiesa come “popolo di Dio in cammino” ha trovato, un po’ imprevedibilmente, la strada giusta.
Episcopati e codice del silenzio
Certo, dalle parole bisognerà ora passare ai fatti, come hanno chiesto giustamente i rappresentanti delle vittime durante l’incontro con il comitato organizzatore del summit in un confronto a tratti aspro ma una volta tanto diretto e schietto. Senza contare che tutta l’area intorno a San Pietro e all’aula del sinodo dentro il Vaticano dove si sta svolgendo il meeting, è assediata da giornalisti di tutto il mondo, mentre ex vittime ormai adulte, qualcuna con i capelli bianchi, rilasciano interviste, chiedendo alla chiesa e al papa di fare finalmente sul serio.
Tra l’altro testimonianze drammatiche di stupri e abusi sono state ascoltate da tutti i partecipanti all’incontro prima dell’inizio dei lavori, e anche questa è una novità di metodo di una certa rilevanza Oltretevere. In un simile contesto la chiesa americana devastata dallo scandalo ha fatto sapere che – dopo le misure intraprese per fermare il fenomeno (la “tolleranza zero” introdotta a partire ormai dal 2002) – i nuovi casi si sono ridotti a 4-5 all’anno. Ma di fatto nuove ondate di denunce, anche riferite al passato, hanno continuato ad arrivare anche in ragione dell’azione delle varie procure del paese; il quadro insomma è ancora in movimento.
Altrove, come in Italia, in molti paesi dell’America Latina o dell’Europa orientale, gli episcopati si sono mossi con molto ritardo o sono attraversati da resistenze interne di chi non intende prendere atto del fenomeno, cambiare le cose, rompere quel codice del silenzio; del resto è l’autotutela dell’istituzione il vero nodo da sciogliere in questa storia. Così la confessione pubblica fatta da don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, di essere stato abusato in seminario all’età di dieci anni per molto tempo, ha rotto forse l’incantesimo dell’omertà. Al quotidiano Avvenire don Vinicio ha raccontato che non denunciò l’accaduto (tra gli anni cinquanta e sessanta): “Era tutto un tabù all’ epoca. Non si diceva niente. Il bambino non aveva nessun diritto. Questo però non solo nella chiesa: si doveva ubbidire e basta, era così allora. Questo era il clima”.
In generale, nelle settimane immediatamente successive alla conclusione del summit, emergeranno indicazioni pratiche e operative che dovranno essere applicate dalle chiese locali. La richiesta di una piena collaborazione con le autorità civili è stata ribadita più volte in questi giorni, anzi tale collaborazione – ha precisato Scicluna – “andrà a beneficio sia della chiesa sia della società in generale”. Mentre il cardinale Cupich, nell’elencare una serie di passi concreti da compiere, ha chiarito che “la segnalazione di un reato non dovrebbe essere ostacolata dalle regole ufficiali di segretezza o riservatezza”.
Inoltre, tra le proposte giunte dalle varie conferenze episcopali, c’è anche una sorta di norma anti cover up, anti-insabbiamento. Si richiede infatti che siano stabilite regole certe per “il trasferimento di un sacerdote o religioso da una diocesi o congregazione a un’altra”. Perché, in effetti, molti dei sacerdoti coinvolti nei casi di pedofilia sono stati protetti da una rete di complicità attraverso continui spostamenti di parrocchia in parrocchia e di diocesi in diocesi (come racconta bene il film Spotlight).
Il 24 febbraio, infine, parlerà il papa, poi i partecipanti torneranno nelle loro diocesi ai quattro angoli del mondo. Sarà quello il momento decisivo: se almeno in parte s’innescherà un processo nuovo rispetto al passato, mentre ancora inevitabilmente e o forse a maggior ragione verranno alla luce nuove notizie relative ad abusi commessi da preti, vorrà dire che papa Francesco avrà segnato un punto importante nel suo pontificato; in caso contrario la crisi non potrà che peggiorare.
Le foto di questo articolo fanno parte del lavoro Confiteor, realizzato da Tomaso Clavarino in Italia tra il 2016 e il 2018 con l’aiuto dell’associazione Rete l’abuso. Nel progetto, Clavarino ha raccontato le storie di alcune vittime di abusi commessi da religiosi.
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