Il Belgio è l’anello debole e confuso della guerra al terrorismo
Sono trascorse due settimane dagli attentati del 13 novembre ed è cominciato il blame game, il gioco per trovare chi deve assumersi la responsabilità di non aver saputo evitare i 130 morti di Parigi, uccisi da un commando jihadista francobelga.
L’assenza di comunicazione e di collaborazione tra i servizi di intelligence e le forze di polizia francesi e belghe, che pure tenevano sott’occhio molti dei terroristi, è stata indicata già dall’indomani degli attentati come una delle ragioni per le quali hanno potuto agire quasi indisturbati.
A “sparare” per primi sono stati i mezzi d’informazione francesi – i politici sono stati leggermente più discreti su questo punto – a cominciare da Le Monde: in un editoriale al vetriolo, il quotidiano parigino accusa “il simpatico Belgio” di essere diventato “un centro di smistamento del jihadismo” e gli consiglia di “riprendersi”, prima di tirare fuori l’argomento fine-di-mondo: “Il terribile scandalo Dutroux, negli anni novanta”, che spinse il Belgio a “riformare finalmente la sua polizia e la sua giustizia”.
Un modo poco elegante per ricordare che l’inefficienza, l’impreparazione e l’assenza di coordinamento delle forze dell’ordine belghe avevano consentito al serial killer di Marcinelle di rapire e uccidere indisturbato quattro adolescenti, una vicenda che aveva profondamente scosso il paese all’epoca.
Servi segreti sotto organico
A rincarare la dose è intervenuto Politico Europe, arrivato da poco sulla piazza brussellese e già apprezzato dai suoi colleghi: secondo il sito americano il Belgio è semplicemente “uno stato fallito”, alla stregua della Somalia o del Kosovo. Dopo aver ripercorso la (breve) storia del paese, Politico elenca gli scandali che hanno segnato gli ultimi decenni.
Tutti hanno un punto in comune: le inefficienze delle forze dell’ordine e della giustizia, in gran parte dovute alla “politicizzazione” e alla “frammentazione della polizia e della magistratura”: “In un paese dove la politica è sempre locale, i politici sono restii a rinunciare al potere unendo le risorse”, scrive, citando l’esempio di Bruxelles, i cui 19 municipi hanno ciascuno la propria polizia (sono state di recente ridotte a sei), considerata tra l’altro come “un fornitore locale di lavoro per i meno qualificati”.
La frammentazione – che aumenta a ogni elezione in cui i partiti autonomisti conquistano voti e potere – e le scarse risorse caratterizzano anche l’intelligence, prosegue Politico: “Dopo gli attentati contro Charlie Hebdo a gennaio si seppe che i servizi segreti belgi erano sotto organico di 150 agenti rispetto ai 750 di cui avevano bisogno. Di recente si è saputo che 42 persone sono state assunte, ma che la loro formazione prenderà altri due anni”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Come spesso accade in questi casi, le critiche, pur giustificate e documentate, non sono state prese molto bene in Belgio, soprattutto quelle provenienti dalla vicina Francia, con la quale il paese, almeno la sua parte francofona, intrattiene da sempre un rapporto di amore-odio, come si legge nelle parole del direttore di La Libre Belgique, Francis Van de Woestyne:
La condiscendenza francese non ha limiti. Ovviamente, non abbiamo aspettato che una parte della redazione di Le Monde sbarcasse a Bruxelles per denunciare le carenze dei servizi belgi nella lotta contro il terrorismo, il lassismo colpevole dell’ex sindaco di Molenbeek e l’assenza di coordinamento tra i paesi europei nella caccia ai jihadisti. Se è vero che diversi autori dei recenti attentati sono passati da Bruxelles o da Molenbeek, altri hanno lasciato la Francia per andare a formarsi in Siria. E alcuni jihadisti si sono radicalizzati nelle carceri francesi. E Dutroux, che c’entra? Dobbiamo forse riparlare del caso Outreau?
Evocando, in questo modo la più grave catastrofe giudiziaria della storia recente in Francia, anch’essa legata a casi di pedofilia.
Appena più moderata è Béatrice Delvaux su Le Soir:
Stato fallito, competenze scollegate dei servizi di polizia, giustizia e intelligence ed entità politche che comunicano poco o male: è questo il discorso che si sentiva all’epoca dello scandalo Dutroux e che si sente di nuovo oggi. La differenza è che ora ciò che all’estero è definito come ‘il fallimento belga’ fa pagare il prezzo all’Europa intera. […] Un incendio non è ancora divampato in Belgio ma sta lambendo i suoi confini, e non solo quelli con la Francia: l’idea che il Belgio sia un ‘covo di jihadisti’ si sta trasformando presso alcuni inquisitori/osservatori in un vero e proprio processo contro un paese che sta fallendo. La connessione tra gli attentati di Parigi e il Belgio, attizzata dal lavoro di comunicazione dei dirigenti francesi – seguiti dai loro mezzi d’informazione – per far ricadere la responsabilità dei morti francesi sulle carenze della sicurezza e dell’intelligence belghe, ci sta facendo subire un processo in piena regola per malfunzionamento.
Sapendo di avere gli occhi del mondo puntati addosso e non volendo passare, nel confronto con le autorità francesi, per l’anello debole dell’antiterrorismo, il governo belga è corso ai ripari, prendendo misure estreme e blindando Bruxelles per quattro giorni, a causa della minaccia “imminente” di un attentato. Ma il lockdown della capitale si è concluso senza che i principali ricercati per gli attacchi di Parigi, Salah Abdeslam e Mohamed Abrini, siano stati catturati.
La pessima comunicazione del governo, sia sulle condizioni sia sulla durata del lockdown, e quella della giustizia – contrariamente all’apprezzato collega di Parigi, il procuratore generale belga è stato molto parco nel comunicare con i giornalisti sulle indagini – hanno contribuito ad alimentare la sfiducia dei belgi nelle loro istituzioni. Annunci contraddittori, misure incoerenti (le scuole hanno riaperto mentre i mezzi di trasporto erano ancora fermi) e versioni contrastanti sulla realtà delle minacce che pesano sulla capitale belga non hanno aiutato. Per esempio, proprio mentre il premier Charles Michel spiegava al parlamento che lo stato di allerta era mantenuto al livello 4 (su 4), l’Ocam, l’autorità indipendente che decide lo stato di allerta, lo ha riportato a 3.
Chi ne esce meglio alla fine sembrano i belgi stessi
Allo stesso modo, si è appreso in questi giorni con una certa costernazione che quattro persone coinvolte negli attentati di Parigi, tra le quali Abdeslam e Abrini, facevano parte di un elenco di 85 persone “radicalizzate o legate a movimenti fondamentalisti, o sospettate di appartenere a gruppi radicali”, alcune delle quali partite per la Siria, elenco trasmesso a giugno dai servizi belgi alla sindaca di Molenbeek, Françoise Schepmans, e al capo della polizia comunale. La sindaca ha affermato di aver “trasmesso l’elenco alle autorità federali”, perché “la polizia comunale non ha competenza in materia di terrorismo”. Nessuna delle persone dell’elenco è stata però arrestata né incriminata perché non avevano commesso reati particolari all’epoca. Addirittura, riferisce La Capitale, “la polizia federale avrebbe chiesto alla polizia locale ‘di non intervenire contro le persone presenti su questo elenco’”.
In questo contesto, chi ne esce meglio alla fine sembrano i belgi stessi, che hanno reagito con “coraggio e serenità ammirevoli al percorso davvero angosciante sul quale alcuni suoi dirigenti si sono avviati”, come ha scritto Bart Eekhout su De Morgen, in un editoriale nel quale elenca la serie delle incoerenze, degli abusi e delle approssimazioni di autorità, forze dell’ordine e sindacati. I belgi che, per una volta, hanno messo da parte le eterne divisioni linguistiche e regionali, per far fronte, con la consueta bonomia e un pizzico di surrealismo (in fondo lo hanno inventato loro), a uno degli episodi più stressanti della loro storia recente.