Il divieto del burkini è un segno di laicità o di islamofobia?
Sembra di essere tornati al 2010, quando il parlamento francese votò la legge che vietava ai pubblici dipendenti e alle studentesse del liceo e delle medie di indossare capi che indicassero in modo “ostentato” la religione di chi li portava, e i capi che nascondono il volto. Una misura mirata a fermare la diffusione del niqab, che copre integralmente il corpo delle donne in alcuni paesi musulmani rigoristi.
Anche all’epoca ci furono polemiche e dibattiti sul fatto che il legislatore dovesse stabilire come le donne dovessero vestirsi e se la misura fosse discriminatoria. E anche all’epoca gli osservatori stranieri faticavano a capire come mai i francesi fossero così attaccati a una visione restrittiva della laicità.
Si trattava di riaffermare un principio fondante della repubblica, nei luoghi dove lo stato è presente, e per le persone che lo rappresentano. E si trattava anche di offrire alle studenti la possibilità di sfuggire a un eventuale obbligo imposto dalla famiglia.
A corto di idee e di scrupoli
Da allora in Francia non ci sono stati altri episodi simili e la vicenda è stata chiusa dopo che la Corte europea dei diritti umani ha stabilito nel 2014 che la misura non era discriminatoria né lesiva della libertà di espressione. Ma nel frattempo ci sono stati diversi attacchi e attentati di matrice islamica – quello a Charlie Hebdo, gli attentati di novembre 2015 e quello di Nizza a luglio in particolare – e l’opinione pubblica francese, pungolata da politici a corto di idee e di scrupoli, è sempre meno tollerante nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con gli aspetti più visibili dell’islam.
La questione della legittimità degli indumenti marcatamente religiosi è così tornata di attualità questa estate, dopo che i sindaci di tre comuni francesi – Cannes e Villeneuve-Loubet, in Costa azzurra, e Sisco, in Corsica – hanno emesso delle ordinanze che vietano di fatto di indossare il burkini, il costume da bagno che lascia scoperti solo volto, mani e piedi lanciato in Australia e indossato da alcune donne musulmane nel mondo.
Le misure, che secondo gli autori puntano a prevenire le “provocazioni” legate all’“avanzata del fondamentalismo”, sarebbero giustificate dall’esigenza di evitare disturbi all’ordine pubblico innescati da costumi “che manifestano in modo ostentato un’appartenenza religiosa, mentre la Francia e i luoghi di culto sono attualmente bersaglio di attacchi terroristici”. Le ordinanze stabiliscono che sulle spiagge è obbligatorio indossare vestiti “corretti e che rispettino il buon costume e la laicità”, una menzione “che ha deboli fondamenti giuridici ma un potenziale polemico garantito”, osserva Libération.
Tra nove mesi ci sono le presidenziali e i partiti fanno a gara a chi ha le posizioni più dure sull’islam
Per il momento, il tribunale amministrativo di Nizza ha respinto il ricorso presentato dal Collettivo contro l’islamofobia in Francia (Ccif), un’associazione musulmana, contro l’ordinanza del sindaco di Cannes. Secondo i magistrati gli indumenti da spiaggia che “mostrano l’appartenenza religiosa” “possono creare o esacerbare le tensioni” e “complicare il lavoro dei soccorritori in caso di annegamento”. Il Ccif ha fatto appello e il consiglio di stato si pronuncerà nel giro di un mese. Anche la Lega per i diritti umani (Ldh) ha presentato un ricorso al tribunale amministrativo di Cannes. L’udienza è prevista per il 19 agosto.
Secondo la giurista francese Stéphanie Hennette-Vauchez, che insegna all’Università di Parigi-Nanterre, “ci sono buone probabilità perché quest’ultimo bocci le ordinanze”: “I divieti sono troppo generici per superare le norme contro la discriminazione, e lasciano adito a troppe interpretazioni e abusi.” I disturbi all’ordine pubblico “devono infatti essere circostanziati e dimostrati, e questo non è il caso. Finora non ci sono state sommosse o scontri che giustifichino una misura fortemente lesiva delle libertà individuali come un divieto sanzionato da una multa, né i sindaci hanno fornito la prova che non c’erano altri mezzi per evitare disordini, mentre hanno l’obbligo di adottare le misure più leggere possibili quando si tratta di libertà individuali”. A questo si aggiunge l’“ipocrisia” di “una misura formulata in modo generico”, ma “applicata in modo discriminatorio: possiamo essere sicuri che nessuna suora cattolica o donna ebrea ortodossa sarà mai multata in spiaggia”.
L’atteggiamento delle autorità francesi può sembrare aberrante a prima vista, e i divieti perlomeno contrari alla libertà di espressione e discriminatori (cosa distingue una donna in burkini da una che indossa la muta integrale, se non la religione? Che fare con i tatuaggi “ostentatamente” religiosi?), se non addirittura espressione di semplice islamofobia. E ci si può chiedere se in una società libera, democratica e aperta sia sufficiente che un indumento sia, come ha dichiarato il sindaco di Cannes, “il simbolo dell’estremismo islamico” per vietarlo.
Infine, tutto questo può sembrare una nuova e inutile crociata contro una parte della popolazione – sempre la stessa – che si ritrova sempre più tra l’incudine dello stato laico e il martello dei fondamentalisti, e presa in ostaggio da questi ultimi. La pretesa di alcuni di “proteggere le donne” contro l’imposizione da parte dei parenti (maschi) o contro un’interpretazione retrograda della religione di un vestito “islamicamente corretto” rischia di cadere nel processo alle intenzioni e di ottenere per effetto che le donne che scelgono liberamente di indossare il burkini perché si sentono più a loro agio rinuncino ad andare in spiaggia.
A questo si aggiungono aspetti prettamente politici, che non contribuiscono mai a semplificare le cose: tra nove mesi ci sono le elezioni presidenziali e partiti e candidati fanno a gara a chi ha le posizioni più dure sui fondamentalisti islamici e i loro simpatizzanti, a costo di sposare quelle del Fronte nazionale (Fn, estrema destra). A ottobre ci saranno le primarie del partito dei Repubbicani (destra) e il loro leader, Nicolas Sarkozy, ha già dichiarato che l’identità nazionale sarà al centro della sua campagna.
Se il primo ministro Manuel Valls si è dichiarato ostile al burkini, precisando che il governo “non legifererà sulla questione”, qualcosa comincia però a muoversi nei rapporti tra lo stato francese e l’islam: il governo sta infatti pensando di abolire il Consiglio francese del culto musulmano, l’istanza che dovrebbe fungere da cinghia di trasmissione tra lo stato e i rappresentanti del culto islamico e provvedere al finanziamento di moschee e scuole religiose e alla nomina degli imam, perché è ritenuto poco efficiente e troppo dipendente dalle organizzazioni islamiche nazionali (in particolare algerina e marocchina). Si fa strada l’idea di creare una Fondazione dell’islam di Francia che dovrebbe centralizzare (e controllare) il finanziamento del culto e la nomina degli imam. Ma il primo candidato alla sua direzione, l’ultralaico ex ministro dell’interno Jean-Pierre Chevènement, non è certo un segnale incoraggiante.
Ma anche al netto di questi aspetti, che pure hanno il loro peso, il comportamento dei protagonisti della vicenda ha una sua logica, che ha origine nella concezione francese dell’integrazione e della laicità. La prima è concepita come l’adesione dei nuovi arrivati in Francia ai valori della République, che si sostituiscono a quelli di origine in nome dell’égalité e dell’universalismo. La Francia è quindi aperta a tutti, ma la diversità non è incoraggiata ed è anzi mal vista, perché potenzialmente nemica dell’uguaglianza. I cittadini sono tutti uguali, a patto che si fondano nello stampo nazionale e rinuncino alle loro peculiarità.
Questo principio è stato applicato anche nei confronti delle minoranze nazionali, e ha funzionato fino a una ventina di anni fa, quando è cominciato il ripiego identitario della seconda e della terza generazione di immigrati, sull’onda della diffusione delle idee xenofobe dell’Fn e dei fallimenti dell’integrazione – i figli dei figli degli immigrati continuano troppo spesso a non essere considerati dei “veri” francesi e la discriminazione positiva è mal tollerata. Un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei paesi anglosassoni, dove le comunità immigrate tendono a mantenere usi e tradizioni dei paesi di provenienza a costo di alimentare il comunitarismo – un altro incubo per i francesi.
La laicità è vista in modo positivo, sia come indifferenza dello stato rispetto ai culti – a scuola, per esempio, non si insegna nessuna religione e lo stato non finanzia le religioni e i loro edifici – sia come esercizio strettamente privato della religione.
Le reazioni dei politici nazionali e locali all’apparizione sulle spiagge di un indumento che ha il vago sentore di religione e di identità non deve quindi stupire. Ma si inserisce in un contesto nel quale la ragione è passata in secondo piano e l’emozione, che raramente dà buoni consigli, ha la priorità. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: comunque vada, a gongolare sono i veri fondamentalisti, perché dettano l’agenda politica e possono una volta ancora calarsi e calare tutti i musulmani nella parte delle vittime, secondo la collaudata logica del tanto peggio tanto meglio.