Raccontare il sud Italia con una fanzine
Sudario è una fanzine autoprodotta da The view from Lucania, un’associazione culturale nata nel 2010. Il progetto è curato dal fotografo Stefano Tripodi e cerca di raccontare l’Italia meridionale in maniera innovativa, da un punto di vista concettuale e stilistico.
Il nome si riferisce proprio a quel lenzuolo, quello che avvolgeva Cristo, e che in epoca romana avvolgeva in generale i defunti. L’idea dietro la scelta di un nome così evocativo è di considerare la fanzine come un “lenzuolo culturale” che di volta in volta si posa su una materia complessa e stratificata come il sud Italia e ci restituisce, come scrive il regista Andrea Fasciani, “ombre, macchie, pieghe, umori”.
Ma che cos’è quindi Sudario? Inizialmente nasce come un contenitore audio e video in cui confluiscono filmati privati, film d’autore inediti, progetti fotografici, immagini d’archivio, suoni e campioni presi dal vero. “Mi interessa dare voce alla parte nera, cupa, magica, maledetta e stratificata del nostro sud provando a sviluppare un nuovo linguaggio”, mi racconta Tripodi, esplicitando i suoi punti di riferimento. “Attingo alla memoria, alla storia, all’ironia nera di Eduardo, alla tammurriata, alle mafie, alla figura del femminiello, alla commedia dell’arte, alle radici dei termini dialettali, al grottesco e agli antichi culti”.
L’intenzione è di realizzare un progetto cartaceo, che non sia una semplice fanzine fotografica. Infatti le immagini che appaiono in Sudario sono completamente al servizio del progetto grafico. Non ci sono testi e neanche didascalie perché solo le immagini e il loro accostamento devono stimolare l’immaginazione di chi sfoglia queste pagine.
E qui comincia la parte del progetto in cui entra in gioco lo studio Atto, ovvero Sara Bianchi e Andrea Zambardi che hanno trasferito su carta, e in completa libertà, le idee di Tripodi e Fasciani. Grazie a loro, Sudario sembra un pamphlet politico degli anni settanta stampato in ciclostile. Mi ritrovo a sfogliare il secondo numero di Sudario: le pagine sono rigide, le foto si perdono in una dittatura della monocromia, per diventare un tutt’uno con il colore dominante del numero, in questo caso il rosa, che a volte diventa rosso, nero e altre è completamente fuori registro. Trovandomi un po’ spiazzata visto che non ho la formazione giusta, faccio vedere la rivista al mio collega Pasquale Cavorsi, grafico. “Che ti fa venire in mente?”, gli chiedo, e lui: “Il Politecnico!”.
Lo stile di Atto ruota intorno all’uso della Risograph, una macchina che stampa fogli che sembrano un po’ serigrafie e un po’ fotocopie. Se volete dettagli su come funziona, Bianchi e Zambardi ne parlano qui.
Pensando invece alle foto, la prima domanda che mi è venuta in mente quando ho intervistato Tripodi è come hanno reagito i fotografi a questo trattamento sulle immagini. “Molti non hanno voluto prendere parte al progetto”, mi risponde. “Il pensiero che le loro foto, magari scattate con il banco ottico, potessero annientarsi, impastarsi nel tritacarne della Risograph, li faceva inorridire”. Trovo interessante l’atteggiamento degli autori che si sono prestati, distaccandosi dalla loro concezione originale e accostandosi a un’altra che ne arricchisce il senso.
Sudario non è un progetto facile, perché contiene al suo interno un messaggio veicolato dalla sperimentazione. Dal 2014 sono usciti due numeri, più un numero zero. In primavera arriverà il terzo. L’operazione dovrebbe concludersi in nove uscite e poi, se trova un editore, Sudario diventerà una rivista semestrale che continuerà il lavoro cominciato dalla fanzine.