“Vago ma appassionante”. Era il marzo del 1989, Tim Berners-Lee aveva 33 anni e lavorava al Cern di Ginevra. Il suo capo aveva scribacchiato quel commento su un progetto che lui, giovane scienziato, aveva presentato qualche mese prima. Si intitolava Information management: a proposal, e suggeriva nuovi modi per usare i collegamenti ipertestuali. Il web nacque così, grazie a un appunto poco convinto che però lasciava a Berners-Lee la possibilità di sviluppare la sua idea nei ritagli di tempo.

Oggi lo scienziato sarebbe uno degli uomini più ricchi del mondo se solo avesse deciso di sfruttare commercialmente quel progetto. Invece Berners-Lee convinse il Cern a metterlo a disposizione di tutti gratuitamente. Con due regole di base: che non ci sarebbe stata nessuna forma di controllo centrale, e che la rete non avrebbe favorito nessuna applicazione in particolare, ma avrebbe semplicemente cercato di far viaggiare i pacchetti di dati da un computer all’altro nel modo più rapido possibile, indipendentemente dalla fonte e dal contenuto dei pacchetti stessi. Tra le conseguenze di questa grande apertura iniziale c’è stata, per esempio, la possibilità per tutti di innovare liberamente, senza dover chiedere il permesso a nessuno. Un paradosso “che i fanatici neoliberisti alla guida di molte aziende tecnologiche tendono spesso a dimenticare”, ricorda John Naughton sull’Observer.

È così che due studenti come Mark Zuckerberg o Larry Page hanno potuto creare Facebook e Google. Ed è così che sono nate aziende enormi che in pochi anni sono riuscite ad accumulare fortune colossali. Sfruttando commercialmente una piattaforma gratuita e libera per creare siti che invece liberi non sono, dove le regole sono decise solo dagli amministratori delegati e l’unico obiettivo è far diventare ricchi gli azionisti.

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