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Una delle prime inchieste sulla società di consulenza Cambridge Analytica è uscita alla fine del 2016 su Das Magazin in Svizzera e in Italia su Internazionale.
Le ultime inchieste dell’Observer e del New York Times confermano i sospetti iniziali: Cambridge Analytica avrebbe usato in modo scorretto una grande quantità di dati prendendoli da Facebook. La società di Mark Zuckerberg sapeva e non ha fatto nulla per impedirlo. Ma lo scandalo non sarebbe esistito senza una serie di profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni.
Li ha riassunti Annamaria Testa in un articolo per il sito di Internazionale: “Con l’arrivo del web il processo di diffusione della disinformazione accelera fino a diventare istantaneo e pervasivo. I destinatari potenziali della disinformazione si moltiplicano esponenzialmente, fino a coincidere con l’universo delle persone in rete (e, se si tratta di immagini, cade anche la barriera linguistica). Si moltiplicano anche le fonti possibili, nel senso che qualsiasi signor Nessuno, senza alcuna speciale abilità e senza dover essere un tiranno o un capo totalitario, può produrre efficace disinformazione, a costo zero. La soglia per catturare l’attenzione in rete si riduce: parliamo di otto secondi. In modo simmetrico, la velocità di fruizione cresce. Tutto ciò diminuisce sia l’impatto potenziale dell’informazione affidabile, che di solito è meno urlata, sia la nostra attitudine a valutare e approfondire”.
Una lettrice, Paola Zappaterra, commentando quest’articolo avanza un’ipotesi: “C’è forse un elemento ‘di classe’ nel privilegiare i social network come fonte d’informazione politica? Persone di cultura e reddito medio-alto sul web tendono a leggere quotidiani, riviste e siti d’informazione che di solito costano soldi e un certo impegno, mentre lo smartphone è ormai alla portata di tutti e un account Facebook o Twitter è gratuito”.
Questa rubrica è uscita il 30 marzo 2018 nel numero 1249 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati