Il carcere in Italia fa i conti con più di un virus
In tempi in cui di carcere si parla solo quando si sente il clangore dei ferri battuti durante le rivolte o per le polemiche sulle scarcerazioni, torna utile la lettura del rapporto curato dall’associazione Antigone. Quello nuovo è stato presentato il 22 maggio. Alcuni numeri sono prevedibili: al carcere non piace cambiare, è affezionato alle cattive abitudini, specie se sono tra le peggiori. Altri aiutano a smontare luoghi comuni e retoriche pericolose.
È meglio cominciare da quelli che misurano il perimetro della questione. A fine febbraio 2020 in Italia le persone in cella erano 61.230. Il 32 per cento c’era finito per reati legati alla droga, il 25 per cento aveva una tossicodipendenza. Un terzo dei detenuti era straniero, lo 0,4 per cento sul totale degli stranieri residenti in Italia. Settecento erano laureati, 19.485 avevano una licenza di scuola media, 882 non avevano alcun titolo di studio. Tanti erano nati in Campania, in Sicilia e in Puglia, tre delle regioni più povere del paese. Per tutti e 61mila, i posti disponibili erano 50mila.
L’emergenza sanitaria ha dunque colto gli istituti penitenziari mentre c’era un sovraffollamento del 130 per cento. Per lo stesso motivo a gennaio 2013 la Corte europea aveva condannato l’Italia. I detenuti erano allora 65mila. Per anni si è detto che non si poteva fare niente per evitare che tre, quattro o cinque persone vivessero ammassate in una cella di pochi metri quadri. Nel marzo 2019 il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini dipingeva il sovraffollamento come un “falso problema”. Nel maggio dello stesso anno, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede pensava che per affrontarlo si potesse solo costruire più carceri. Poi è arrivata la pandemia. E la preoccupazione che le prigioni si trasformassero in focolai ha spinto Bonafede a fare marcia indietro. Il numero delle persone in cella si poteva ridurre – le associazioni e gli studiosi lo ripetevano da tempo – bastava un decreto che consentisse a chi aveva pochi mesi ancora da scontare, o a chi era stato condannato per reati non gravi, di accedere a pene alternative alla detenzione. In due mesi lo hanno fatto più di ottomila detenuti. I delitti non sono aumentati. Dal 1 gennaio al 31 marzo 2020 sono diminuiti del 29,2 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, a parte l’usura che durante il lockdown è cresciuta del 9,6 per cento.
Le scarcerazioni però non sono passate sotto silenzio, specie quando a richiedere i benefici sono stati alcuni criminali condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa. “La mettono giù così: ‘Vi pare giusto che, con la scusa del virus e sotto ricatto di rivolte sobillate dai boss, giudici ribelli abbiano scarcerato 376 pericolosi capimafia al 41 bis?’. E, messa così, la risposta sarebbe una sola”, ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. “Dal 41 bis sono usciti non in 376 ma in tre (oggi quattro, ndr)”, fa notare il giornalista, “per tumori e cardiopatie a rischio vita combinati all’incapacità del sistema penitenziario di garantire cure indifferibili. Due terzi degli altri sono ‘boss’ sulla fiducia, visto che attendono ancora sentenze”. Aggiunge Antigone: “494 reclusi in alta sicurezza sono stati scarcerati, di cui 253 erano in attesa di giudizio; degli altri 245 solo sei sono stati scarcerati grazie alle misure previste dal decreto cura Italia”.
Travolto dalle polemiche – e già indebolito per non aver saputo gestire le rivolte nelle carceri a inizio marzo, durante le quali sono morti 13 detenuti – Basentini si è dimesso. Bonafede, che lo aveva voluto e difeso, è rimasto al suo posto. In tutta fretta ha firmato un nuovo decreto “per impedire la scarcerazione dei boss” ed è sopravvissuto a due mozioni di sfiducia in parlamento. Per il momento la sua nave è uscita dalla bufera. Quella del carcere – dove 119 detenuti e 162 operatori sono stati contagiati dal covid-19, e otto tra loro sono morti – continua a imbarcare acqua.
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