Curzio Malaparte, La pelle

Adelphi, 380 pagine, 20,00 euro

Sottotitolo Storia e racconto, è l’opera di Malaparte che fece più scandalo, raccontando nel 1949 la grande miseria e il massimo avvilimento di Napoli tra la sua liberazione e il 1945 con lo stesso estremismo riservato al racconto del conflitto mondiale in Europa, Kaputt (ancora Adelphi).

A tanti anni di distanza, Malaparte riesce ancora a turbare i lettori, ben più di tutti i tarantinati fasulli delle mode attuali, perché il suo cinismo ha radici motivate e le sue “esagerazioni” si rifanno alla grande tradizione del barocco pittorico, da Ribera allo Zumbo.

Morte e putrefazione, fame e mercificazione violenta dei corpi, e una animalesca vitalità. Avrebbe dovuto chiamarsi La peste, ma arrivò prima Camus, con ben altra grandezza morale. Il suo vero tema è il rapporto tra i vincitori ( la “salute” americana) e vinti (una città dove si è abbassati tutti a un unico fine, la nuda sopravvivenza anche tra le più turpi delle abiezioni).

Simone Weil diceva che la verità si allontana sempre dal carro dei vincitori, Malaparte lo sapeva e lo disse a gran voce. Le battute finali con l’amico alleato sono esemplari: “‘Non vorrai darmi a intendere che anche Cristo ha perso la guerra?’. ‘È una vergogna vincere la guerra’, dissi a voce bassa”. Troppe le digressioni saggistiche e politiche e gli effetti speciali, ma La pelle resta un grande libro.

Internazionale, numero 884, 11 febbraio 2011

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