Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia

Einaudi, 240 pagine, 20,00 euro

L’autore di due ritratti crudeli di una malvagia quotidianità di persone normali (La settimana bianca, L’avversario) è diventato buono, si è detto in Francia di queste Vite, venute dopo un ambizioso e fallito romanzo sulla propria famiglia, La vita come un romanzo russo.

Si torna alla normalità ma con occhio pieno di pietas e battendo il terreno di un privato che ci fa somigliare tutti e dappertutto: la famiglia, i legami e affetti primari con l’aggiunta delle amicizie forti, ma tra benestanti. Quasi un anti Houellebecq, ma di non minore abilità narrativa. A partire dalla morte di una bambina, figlia di conoscenti, in una vacanza spezzata dallo tsunami, e da quella per cancro di una giovane cognata, sposa e madre e di mestiere giudice, Carrère si mette in gioco raccontando sé con gli altri, le sue e le altrui reazioni, la difficoltà di accettare e l’obbligo di andare avanti e, insomma, l’elaborazione del lutto nel ceto medio di oggi.

Libri e film su les choses de la vie spesso dolciastri e irritanti ce ne sono migliaia, questo è uno dei pochi convincenti. Si segue con forte partecipazione: sono cose che ci riguardano e ci si commuove, e la storia e il presente non vengono trascurati grazie a excursus quasi didascalici su economia e diritto.

Internazionale, numero 893, 15 aprile 2011

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