Zachar Prilepin, Patologie

Voland, 328 pagine, 15,00 euro

Nella patria dei dialetti e di Gadda la lingua comune dei romanzieri è solitamente piatta e giornalistica, e la sua sperimentazione è lasciata semmai a un teatro non centrale e raro (ai primi posti il calabrese Saverio La Ruina e la siciliana Emma Dante).

È un segno anche questo dell’omologazione e della mercificazione, che riguarda però anche la letteratura mondiale: sono pochi gli scrittori che sembrano resistere agli obblighi di una produzione mercificata, e che cercano, inventano. costruiscono. Che non preferiscono la facile traducibilità.

È il caso del russo Zachar Prilepin, 35 anni, veterano della guerra in Cecenia, che pure è anche giornalista (della Novaja Gazeta) ma che pesca dalla sua esperienza di giovane soldato le parole giuste per dire la complessità dei mondi e dei confronti, incrociati e obbligati. Il protagonista è un antieroe che la violenza delle emozioni – esercitata, subita, vista o ascoltata – rende psicologicamente fragile, al limite o dentro l’esasperazione dei sentimenti. Anche quelli “di casa”.

Sarebbe assai utile confrontare libri come questo non con le finzioni effettistiche da basso cinematografo (ce n’è anche da noi) ma con la letteratura di guerra (post-Vietnam) di più paesi. Cambia la guerra? No, ma cambiano i modi di raccontarla, e quello di Prilepin è tra i più rigorosi, coinvolgenti, agghiaccianti.

Internazionale, numero 899, 27 maggio 2011

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